Ricevo e pubblico l'anticipazione dell'Editoriale del prossimo numero di ISP notizie, notiziario dell'ISP, Istituto di studi sulla paternità (si tratta del n.4/2009, ottobre/novembre/dicembre) a cura di Maurizio Quilici, presidente ISP. Ho trovato l'articolo dal titolo Mammo? No, grazie! molto interessante e sono convinto che darà luogo a numerosi spunti di riflessione.
Mammo? No, grazie! (di Maurizio Quilici, presidente ISP)
Mi pare che il “mammo” incontri meno favore di una volta. Sempre più spesso, infatti, mi capita di leggere o ascoltare opinioni (non solo di studiosi) che stigmatizzano la eccessiva femminilizzazione del maschio-padre italiano e auspicano una qualche inversione di tendenza.
Il 23 novembre scorso, assieme a Cristiano Camera, creatore di un simpatico blog dal titolo “SOS Mammo”, sono stato ospite della trasmissione di RAI3 “Cominciamo bene”, in una puntata dedicata appunto al “mammo”. E questo mi dà lo spunto per tornare sull’argomento.
Come sempre, la prima cosa da fare è… intenderci. C’è infatti una questione di forma e una di sostanza, come spesso accade legate fra loro. Cominciamo dalla forma, ossia da quel sostantivo, coniato dai miei colleghi giornalisti (anche Camera lo è, dunque lo sa bene). Conosco la comodità di certe formule che hanno il vantaggio di essere brevi (sulla carta stampata è importante per motivi di titolazione) e di dire molte cose in poco spazio. E “mammo” – isolato da ogni contesto – ha indubitabilmente un suo appeal per definire un fenomeno. Peccato che lo faccia in modo superficiale e approssimativo, anzi errato.
Dietro un tono scherzoso che può ispirare persino simpatia, quel termine nasconde un sottile effetto riduttivo o, peggio, dispregiativo. Suggerisce che un uomo non possa fare il padre in modo diverso da quello delle generazioni precedenti se non copiando la madre. Ora, è vero che i cosiddetti “nuovi padri” (espressione anch’essa giornalistica ma molto più seria) nell’affrontare terreni fino ad oggi sconosciuti finiscono col rifarsi a modelli femminili: la propria partner e la propria mamma. Ma è anche vero che essi stanno facendo notevoli sforzi per creare un fisionomia nuova – ed autonoma – di paternità. E il termine “mammo”, un ibrido svalutativo, finisce con il sancire una impossibile maturazione per questi papà, se non nella scia e nel riflesso della madre. Non solo: “mammo” sta anche a significare: attento, stai invadendo un terreno che non è il tuo, non ti è congeniale e non ti è dovuto.
Non sto drammatizzando, ma è un termine infelice e ingiusto. Perché un padre è e deve essere un padre. Diverso, certo, da quello di una volta così rigido e distante; più femminile, più materno, se vogliamo, ma senza perdere la sua fisionomia maschile a paterna.
E qui veniamo alla sostanza. Se per “mammo” intendiamo un padre che con grande perizia cambia i pannolini o prepara le pappe, porta il figlio al parco, lo accompagna a scuola, non lesina coccole … beh, questo mi pare un “mammo” apprezzabile (purché, ripeto, si smetta di chiamarlo così). Se invece con questo termine ci si riferisce a un padre che oltre a tutto ciò ha uno spiccato senso di possesso – tipicamente materno – nei confronti dei figli (della serie “i figli sono miei: li ho fatti io!”), manifesta la classica apprensione delle mamme (“non correre, ti fai male…”, “attento, non sudare…”) e non fa nulla per nascondere un forte senso di protezione che lo spinge a scoraggiare regolarmente i momenti di autonomia dei figli, fino a quando, in perfetta complicità con la loro madre, farà di tutto per rimandare il momento del distacco da casa da parte del “pupo” trentenne… Beh, questo padre ha abdicato a buona parte delle sue funzioni storiche (e, quel che più conta, psicologiche). Questo è il “mammo” che non vogliamo.
Soprattutto non lo vogliamo quando la sua omologazione, meglio identificazione, con la madre lo porta ad assumere atteggiamenti di grande permissivismo quando, da figura che pone dei limiti, che sa dire anche “no”, che dà delle regole – come era il padre di una volta – si trasforma in un doppione materno tendente alla concessione, al cedimento, al consenso sempre e comunque.
E’ la figura del “padre amico”, o peggio ancora “compagno”, subdolo equivoco dei tempi moderni, quando si finge di ignorare che un adolescente non ha bisogno di amici; di questi, infatti, ne ha oggi moltissimi, anche se il termine “”amicizia” ha connotati più superficiali e meno impegnativi di quelli di un tempo, e basti pensare alla formula “amico” e “amicizia” di Facebook.
La madre ha sempre svolto un ruolo di mediatrice e giustissima era la sua maggiore accondiscendenza, il suo chiudere un occhio, poiché serviva a controbilanciare una severità paterna talora eccessiva. Non necessariamente un “gioco delle parti”, ma un ruolo necessario e importante di equilibrio, di omeostasi familiare (il famoso ruolo “espressivo” della madre teorizzato dal sociologo Talcott Parsons, in contrapposizione al ruolo “funzionale” paterno). Ma è evidente che se non c’è più una posizione maschile da smussare, da ammorbidire alla ricerca di un compromesso, fra padre e madre si duplica inutilmente un identico comportamento.
Qualcuno potrebbe pensare che il problema si risolve semplicemente se i due genitori presentano ai figli un modello educativo comune che sia già il risultato del compromesso, ovvero se la madre riduce la soglia della tolleranza e il padre allontana quella della severità. Ma il meccanismo non è così facile, perché secoli di divisione dei compiti hanno cristallizzato i ruoli paterni e materni e anche solo modificarli (non dico invertirli) comporta facili disorientamenti, incertezza, esiti discutibili se non, in qualche caso, disastrosi.
Allora ben venga il padre capace di rinunciare a qualcosa del suo lavoro (come quasi sempre sono costrette a fare le madri) e del suo svago, che sa trascorrere gioiosamente il tempo con i figli anche piccoli, che collabora attivamente in casa e non solo nell’accudimento. Un padre capace di quella dote, finora attribuita a torto solo alle madri, che è l’empatia nei confronti di un bambino. E capace di esprimere tenerezza, dolcezza, senza anacronistiche “corazze”. Questo non è il “mammo”, ma un padre che ha rinunciato sapientemente e felicemente a un ruolo stereotipato di durezza, di severità, di distacco.
Tuttavia questa strada non deve condurre a un doppione della figura materna. Non deve scomparire colui che naturaliter è portatore, più della madre, di regole, di limiti (su queste stesse colonne ho parlato dei padri di oggi come di “padri del sì”). C’è già, nella società attuale, una costante femminilizzazione di molte professioni, specialmente quelle che operano nel campo dell’infanzia (qualcuno parla di “maternizzazione”). Con i suoi pro, ma anche con molti rischi.
Se in famiglia il modello maschile subisce un appannamento e sfuma nell’indistinzione, non avremo più un padre e una madre, avremo due madri (o una madre e un “mammo”, che è quasi la stessa cosa). Qualcuno potrà considerare positiva l’ipotesi di questo scenario, così come qualcuno considera positivo che ci possa essere una madre biologica senza un padre. Ma mi sembra difficile da sostenere, almeno fino a quando la formazione della propria identità dovrà fare i conti con l’altro, ossia dovrà, in primo luogo, armonizzare un elemento maschile e uno femminile.
Esprimo il mio totale accordo sui contenuti del post. In realtà il processo di femminilizzazione di quella parte di società che si occupa di "educazione/accudimento" è un fenomeno complesso che purtroppo porta con sè una serie di conseguenze. La "società senza padri" (neologismo del tutto personale) è quella che determina, in larga misura, il disorientamento dei giovani. Occupandomi di famiglie e di adolescenti, sempre più spesso, mi trovo ad intervenire in situazioni degenerate a cuasa di mancanza di "norme". La funzione normativa che è una funzione paterna, serve a chi cresce, sia perchè costituisce un sentiero entro il quale indirizzarsi, sia perchè è ciò che permentte, attraverso la sfida, di affermarsi come futuro adulto.
RispondiEliminaDetto questo, sono un'assidua frequentatrice del blog di Cristiano, perchè, al di là del titolo, lo trovo pieno di spunti di riflessione, e di intelligenti letture della relazione umana in generale.
Quilici coglie nel segno alla perfezione: anche a me sta molto antipatico il significato che si vuole affibbiare a "mammo". Più che una creazione giornalistica, infatti, a me sembra una scorciatoia bella e buona, un ridurre ad unicum le due funzioni genitoriali, banalizzando molto anche in termini di puro "marketing": mammo è più preciso nell'indicare un mercato già pronto, esistente, sovrapponibile, di esigenze emotive e commerciali: il nostro humus e brodo di coltura pestifero.
RispondiEliminaI padri, mi sembra, non amano essere oggi "mammificati": credo al contrario che in passato ci siano stati padri che rispondevano con una ottusa severità alla loro stessa assenza (altro che lontananza!!!), era un ruolo equivocato, una inadeguatezza di fondo e spesso era tutto lasciato alle madri: accudimento, educazione, regole e tolleranza complice. I padri altrove, tanto che si parla di materno come una funzione della relazione coi figli, almeno per le generazioni precedenti. Oggi si cerca di recuperare, facendo tutto in casa, da soli, in autoformazione perché checché se ne dica di paternità non si parla e non se ne parla nemmeno tra padri: oggi siamo presenti, usiamo realmente il nostro tempo coi figli (lo vogliamo), cambiano pannolini e diciamo no pur dando la libertà di correre e sudare, tutto da soli, senza modelli, senza riflessione teorica, senza scambio tanto che le mamme fanno relazione (fanno rete), i padri trasmettono opinioni (fanno broadcasting). Speriamo la riflessione tra noi padri si allarghi un po' oltre i limiti magnifici e progressivi dell'I-Pod..........
Chiedo perdono per la prolissità.