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Visualizzazione dei post da marzo, 2012

Anticipazioni

Ogni tanto, periodicamente, mi passa la voglia di continuare a scrivere questo blog. Mi succede di pensare di smettere soprattutto quando trascorro molto tempo con i miei figli, una cosa è la teoria, il racconto, un'altra la realtà, la vita vissuta. Compilare questo diario è per me un modo per stare mentalmente vicino ai miei bambini nei momenti in cui sono fisicamente lontano da loro. Ed è quindi completamente inutile, è addirittura una perdita di tempo scrivere se questo stesso tempo posso passarlo direttamente con loro. Insomma, la vedo così: meglio vivere che pensare, preferisco l'immediatezza delle sensazioni al loro ricordo e alla loro rielaborazione. Anche ora che sto scrivendo lo faccio approfittando del silenzio della notte e del fatto che i bambini si sono appena addormentati. Siamo a casa insieme, noi tre soltanto, grazie a un batterio che ci siamo trasmessi a vicenda, la terapia antibiotica per eradicarlo durerà in tutto dieci giorni, come da protocollo. Ho scritto

Il più bel fiore del mondo

"Chissà se un giorno mi capiterà di leggere di nuovo questa storia, scritta da te che mi stai leggendo, ma molto più bella?...". José Saramago non potrà leggere di nuovo la storia che ha scritto. Né quella che adesso leggerete, la mia, può davvero essere più bella della sua. Tuttavia, ho voluto ugualmente accettare l'invito dello scrittore a riscrivere il suo racconto, non di certo per un confronto con lui, ma per un fatto che mi è capitato la scorsa settimana, il giorno dopo che avevo regalato a Dodokko Il più grande fiore del mondo .  Giovedì sera, prima di andare a dormire, abbiamo letto due volte la storia del bambino che compie il giro del mondo per portare da bere a un fiore appassito. Una volta ancora lo abbiamo fatto venerdì mattina, prima di andare a scuola. Dodokko ha voluto portare all'asilo il libro di Saramago, ma la maestra ci ha fermati sulla soglia dicendoci, con aria molto professionale e decisa, che "non è il caso di tenere il libro in classe, d

In barca a vela con papà

“In barca a vela con papà”: Si chiama così, ed è pensata in modo specifico per i padri, l’iniziativa nata dalla collaborazione fra l’ I.S.P. – Istituto di Studi sulla Paternità, fondato nel 1988 – e la scuola di vela Utopia, nata nel 1977. Per una vacanza, ma non solo. Per imparare la disciplina della vela, ma non solo. Per conoscersi meglio, capirsi di più. Qualche volta per ritrovarsi.  “Un buon rapporto padre-figli” – è detto in un comunicato congiunto - “è fondamentale, oggi più che mai. Condividere una esperienza sportiva nella natura aiuta a recuperare una dimensione nella quale padre e figlio, nel rispetto dei reciproci ruoli, vivono emozioni comuni e rinsaldano il loro rapporto”.  Pensata per bambini e ragazzi nella fascia d’età 8-18, l’iniziativa si rivolge in special modo ai padri separati (soli o con la nuova compagna), per i quali la vacanza estiva con i figli rappresenta spesso un momento di grande ansia, costretti come sono a “concentrare” in pochi giorni il de

Festa del papà, tra poche luci e molte ombre

di Alessandro Spadoni 19 Marzo. Festa del papà. Per molti un’occasione per festeggiare assieme a moglie e figli. Per altri, molti, un giorno amaro che mette ancora più in risalto la loro difficoltà e precarietà. Secondo la Cgia di Mestre infatti la figura del padre in Italia, come quella della maternità del resto, è entrata in profonda crisi, colpa anche dell’incertezza economica, della precarietà e di una visione individualista, nichilista della nostra società che mette alla berlina il valore e il ruolo della paternità.  Nel 2012, in questo nostro strano assurdo Bel Paese, i maschi quarantenni precari o con stipendi da 1.200 euro al mese sono oltre 200 mila, circa il 12% del totale degli occupati maschili e molti con figli a carico, tanti separati e in situazione di estremo bisogno. Per loro non c’è proprio nulla da festeggiare, anzi parlare di Festa del Papà ha quasi il sapore di una beffa. Per loro la condizione naturale è quella di condurre ogni giorno una lotta impari contro le pr

Il più grande fiore del mondo

"Le storie per l'infanzia devono essere scritte con parole molto semplici, perché i bambini sono ancora molto piccoli, e quindi conoscono poche parole e non amano usare quelle complicate. Magari sapessi scrivere storie così, ma non sono mai stato capace di imparare, e mi dispiace. E poi, bisogna saper scegliere le parole, occorre un certo nonsoché per raccontare, in maniera molto diretta e molto chiara, una pazienza infinita. E a me manca quanto meno la pazienza, cosa di cui chiedo scusa. Se avessi tutte quelle qualità, potrei raccontare, nei particolari, una storia bellissima che un giorno ho inventato, ma che, come la leggerete qui, è solo il riassunto di una storia, che si dice in due parole... E scusate la vanità se ho addirittura pensato che la mia sarebbe stata la più bella di tutte le storie mai scritte dall'epoca dei racconti di fate e belle addormentate ... Quanto tempo è passato da allora! Nella storia che avrei voluto scrivere, ma non ho scritto, c'era un vi

Indipendenza

A lui va di sentirsi in compagnia ed è felice così. Anch'io provo lo stesso sentimento e poi la cosa non disturba ulteriormente il mio già labile sonno. Così, dopo un'interruzione, di un anno e mezzo, di questa abitudine, mio figlio è tornato a dormire con me. Qualcuno - lo so già - inorridirà al pensiero che un bambino di quasi cinque anni, anziché trascorrere la notte nel suo letto, la passi in quello del suo papà: le conseguenze sulla sua indipendenza, per molti, potrebbero rivelarsi addirittura 'irreparabili'. Torno con la memoria a tutti i discorsi ascoltati su questo tema fin da quando Dodokko era neonato, agli avvertimenti secondo i quali, se non lo avessi lasciato "il più spesso possibile dormire e giocare da solo", non avrebbe sviluppato la propria autonomia e indipendenza. Ricordo anche una coppia di genitori che aveva deciso di far dormire il figlio appena nato non soltanto nella sua culla, ma addirittura in un'altra stanza: "Per accrescern

La natura, la commedia umana e la pietas

Quanto state per leggere non ha apparentemente né capo e né coda. E, dato che ho avvertito, parto immediatamente con una divagazione proprio per criticare questo strano modo di dire con cui ho appena aperto: in ogni faccenda umana c'è sempre un inizio e una conclusione. E' invece ciò che sta nel mezzo a essere talmente articolato e complesso da apparire completamente disarticolato e sconnesso. Ed è per questa ragione che le conclusioni difficilmente corrispondono alle premesse. Insomma, sia il capo che la coda esistono, mentre ciò che spesso manca è la corrispondenza fra l'uno e l'altra. Inizio con un discorso sulla natura che mi serve da contraltare per arrivare a farne un altro sull'assurdità della commedia umana. Non solo amo gli animali, ma amo tutto ciò che è naturale e che esiste senza aver subìto l'intervento modificatore dell'uomo. E, dato che ho voglia di essere estremo, dirò che amo perfino i terremoti e le eruzioni vulcaniche, per il semplice moti

Una bambina non ancora donna

Ancora una volta sul solito treno: nel giorno della festa delle donne, una bambina non ancora donna è in piedi affianco al padre con cui parla e al quale racconta piccole cose. Cose da bambina, poco importanti, evidentemente. E infatti il padre la guarda, ma è come se non lo facesse, e non la sta neppure a sentire, preso dai suoi grandi pensieri da adulto.  Risponde con distrazione a domande probabilmente già sentite, come se non fosse a conoscenza del fatto che sono sempre le stesse le domande che facciamo, mentre invece sono le risposte che aspettiamo a dover essere ogni volta diverse, a seconda delle situazioni. Le domande, per il solo fatto di esistere, rappresentano sempre delle questioni aperte e ammettono infinite possibilità. Non stupiamoci, dunque, delle domande: non è da stupidi il ripeterle, soprattutto e finché non arrivano le risposte che attendiamo. E' invece la sufficienza con cui a volte si risponde a non essere ammissibile, anche se ogni scelta è libera e ognuno pu

Uno sguardo come la luna

In una delle mie molte veglie notturne, ieri mi sono affacciato dalla finestra per guardare la luna. Attorno alle 2,30 era già ad occidente, ma non era ancora tramontata. Era piena o quasi, luminosa e indugiante. Sono tornato a letto col pensiero alle cose belle che stanno da qualche parte soltanto per noi, per i nostri occhi, appena per il tempo di essere notate.  Che cosa è uno sguardo, cosa significa e quanto dura, mi sono chiesto andando col ricordo a qualche giorno fa, quando ho accompagnato mio figlio a scuola e, al momento di salutarci, lui mi ha guardato più a lungo del solito. I nostri visi erano vicini l'uno all'altro e gli occhi non riuscivano ad allontanarsi nel momento in cui invece avrebbero dovuto farlo: erano trattenuti da uno sguardo che avrebbe voluto dire qualcosa, aggiungere altro da un addio, forse evitarlo. E allora mi sono fatto l'idea che gli occhi, come le parole, servono per parlare, dire, chiamare. E sono anche come le mani, che hanno la funzione

Sia i giorni che i numeri finiscono

"E' vero che i numeri non finiscono mai?", mi ha domandato l'altro giorno Dodokko, confermando subito dopo: "Sono come i giorni, anche loro non finiscono mai".  Ho dovuto smentirlo, andando anche contro la matematica: "I numeri finiscono quando non c'è più qualcuno che sa o può contarli", gli ho detto.  Questa risposta, invece, non glie l'ho fornita: "Anche i giorni terminano, ogni singolo giorno. E termineranno soprattutto quando un giorno non ci sarà più nessuno che potrà passare la notte senza dormire soltanto per vedere, da una finestra, sorgere il sole".  Non ho raccontato a mio figlio la banalità secondo cui esistono giorni finiti, ma che possono durare un'eternità, né la storia che recita che i ricordi ci permettono di prolungare nel tempo un momento già passato. Nemmeno gli ho accennato dell'illusione che ci danno certe aspettative, gli istanti che non sono ancora giunti ma che già siamo capaci di gustare: sono cos

Rotola rotola l'onda

Una città non è un vestito, che possiamo indossare e abitare per intero. E' invece un cerchio o un rettangolo e al massimo in uno dei suoi quattro lati viviamo: in una via, un paio di strade, qualche piazza, un giardino. A volte può capitarci di sconfinare e di andare dall'altra parte, ma si tratta di casi sporadici e infatti prima o poi torniamo sempre a casa, nel quartiere dove abitiamo.  Ho la fortuna di vivere nel lato della città che, al termine del suo cammino, dall'alto delle colline  gradualmente discende fino al suo livello e si immette direttamente nel mare. Non tutti lo sanno, perché è quasi impercettibile alla vista, ma è da qui che, appena terminata, ricomincia la salita, verso un orizzonte senza più muri o strade a sbarrarlo e che se ne resta infinitamente immobile, eternamente fisso ad altezza di sguardo. Rotola rotola l'onda la sabbia lo graffia  il vetro si appanna  e non taglia più. Sabato ho fatto una passeggiata sulla spiaggia assieme ai miei figli.

Una pecora

Dopo il maiale, beh (sta per 'ebbene', ma ci sta anche il verso), non poteva mancare una pecora. Un'altra storia di animali, a corollario della precedente ma questa volta incruenta, almeno lo spero. Giudicate voi stessi, alla fine di questo racconto, se sia proprio così.  Doveva essere un pomeriggio di maggio, uno di quei giorni già afosi che a Roma iniziano a metà primavera e terminano alla fine di settembre. Il luogo è sempre il solito: Villa Borghese, dove portavo i miei cani, Skipper e Minnie, a 'pascolare', tanto per restare in tema. Me ne stavo seduto su un prato con in mano un libro che non leggevo, perché mi divertiva di più osservare uomini e animali quando si trovano a 'contatto con la natura'. E' in questo contesto, infatti, che spesso escono fuori, con maggiore nettezza, i contrasti fra mondo civile e mondo naturale, con tutte le aberrazioni possibili che possono appartenere all'essere umano, così come - perché escluderlo? - all'anima