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Una pecora




Dopo il maiale, beh (sta per 'ebbene', ma ci sta anche il verso), non poteva mancare una pecora. Un'altra storia di animali, a corollario della precedente ma questa volta incruenta, almeno lo spero. Giudicate voi stessi, alla fine di questo racconto, se sia proprio così. 
Doveva essere un pomeriggio di maggio, uno di quei giorni già afosi che a Roma iniziano a metà primavera e terminano alla fine di settembre. Il luogo è sempre il solito: Villa Borghese, dove portavo i miei cani, Skipper e Minnie, a 'pascolare', tanto per restare in tema. Me ne stavo seduto su un prato con in mano un libro che non leggevo, perché mi divertiva di più osservare uomini e animali quando si trovano a 'contatto con la natura'. E' in questo contesto, infatti, che spesso escono fuori, con maggiore nettezza, i contrasti fra mondo civile e mondo naturale, con tutte le aberrazioni possibili che possono appartenere all'essere umano, così come - perché escluderlo? - all'animale domestico.
Se è vero, infatti, che esistono, ad esempio, cani fin troppo civilizzati o umanizzati (scegliete voi l'aggettivo che più vi piace) - dalle razze dal pelo raso con cappottino precauzionale anche in estate, agli esemplari 'toy' che dormono nel letto con i padroni o vengono portati a spasso infilati in una borsetta, dalle selezioni di nuove specie dal muso sempre più corto e paffuto, con conseguenti russamenti durante il sonno e perenne sgocciolamento del rinario, a quelle, per così dire, 'specializzate' nei combattimenti e nei quali devono mordere, preferibilmente uccidere, senza prima aver abbaiato o dato avvertimenti (comportamento, quest'ultimo, che in natura non sognerebbero mai di adottare) - ci sono anche delle persone 'animalizzate' e, nella fattispecie, 'appecoronate', ma non nel senso di 'sottomesse', bensì in quello stretto, di comportarsi come ovini ruminanti.
Insomma, quel giorno di maggio ero semi sdraiato sull'erba e guardavo, senza perdere di vista i miei due cani, di qua e di là da loro, quando notai una signora di mezza età intenta a raccogliere non so che cosa dal prato e riempire, con quel non so cosa, una busta di plastica. Poteva essere cicoria - pensai - oppure rughetta e l'idea che la donna l'avrebbe potuta mangiare mi spinse istintivamente ad avvicinarmi per avvertirla di non farlo, dato che le piante che crescono in città sono inquinate dallo smog e, più che altrove, dalle piogge acide.
Con una naturalezza grande soltanto quanto il mio stupore, la signora mi rispose che non si trattava "né di cicoria e né di rughetta, ma di semplice erba". Di foglie di prato che lei avrebbe consumato, dopo averle bollite, la sera stessa. "Come, lei mangia l'erba del prato?", le chiesi e, alla mia palese obiezione, la donna mi spiegò: "Sì, proprio come le pecore. Vede, io sono una persona molto nervosa e invece, come si sa, le pecore sono animali molto tranquilli. Ecco, io credo che lo siano semplicemente per il fatto che mangiano l'erba. E anch'io, mangiandola, riesco a calmarmi".
Non ebbi nulla da controbattere, dato che mi pareva che la donna sapesse come raggiungere il beneficio che cercava, né volli inutilmente spiegarle che tutti gli erbivori sono animali pacifici e non adottano comportamenti aggressivi proprio per il fatto che, non essendo carnivori, non hanno bisogno di uccidere per mangiare. E così la lasciai alla sua originale dieta da pecora di città.
Adesso che il mio racconto è terminato - e se non siete di quelli che credono che l'uso di questo aggettivo sia giustificabile soltanto in presenza di un qualche spargimento di sangue - secondo voi, la storia che ho raccontato mostra (o cela) un lato cruento oppure no?
Personalmente - ma non lasciatevi influenzare da me - credo di aver deluso le mie aspettative iniziali e adesso protendo per la prima ipotesi.

Commenti

  1. Vabbeeeeh (così inizio ad calarmi nell'argomento)giusto perché sei tu a scrivere (però poi mi devi svelare l'arcano)altrimenti avrei liquidato il post con un semplice "questo qui non c'ha proprio niente da fare".
    Dunque io non ci vedo niente di cruento ma a volercelo trovare, qualcosa potrebbe stare nella signora la quale fa violenza alla sua stessa natura (la più profonda, il suo temperamento: il suo personale groviglio fisiologico di nervi, recettori neuronali, equilibri ormonali e soglie di stimolazione, se stessa, insomma) pur di non imparare a conviverci e dunque a farla esprimere (nei modi e nelle forme previste dalla legge, si intende). La signora si sottopone ad insane diete ( ma poi mica tanto, ché la cicoria sempre erba è, seppur di altro e più alto lignaggio) nel tentativo di domare il suo corpo. E il modo che ha scelto per farlo mortifica anche la sua mente: tranquillanti, ansiolitici, musica, meditazione e tutta la gamma di ritrovati dell'umano ingegno non sono presi in considerazione (non servono, non bastano, non è degna di usarli?). Erba ci vuole, ché se funziona per le pecore che hanno due occhi, due orecchie e un naso come noi...
    E' proprio vero che dentro ad un granello di sabbia c'è il mondo!
    Adesso vedi di rispondere (per favore) se no mi arrabbio e finisce che inizio a mangiar erba pure io. Ciao.

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  2. Ok, faccio un sforzo e ti rispondo, perché mi hai fatto sorridere: sì, credo che ci sia una nota cruenta in questa storia. Il sangue non è soltanto quello che si spande per terra quando veniamo feriti, ma anche quello di un'emorragia interna. E non ci sono perdite più gravi di quelle che coinvolgono la coscienza e che poi vengono più o meno palesate, anche con gesti poco ortodossi. E tu, va' a capirne le ragioni: chissà cosa aveva in testa la signora, chissà che le era capitato per violentare la sua stessa natura.
    E' vero, può esserci il mondo...dietro a un filo d'erba.

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  3. E' curiosa la donna che mangia erba per non essere aggressiva. Mi ricorda un'altra persona che era vegetariana, amava gli animali e adorava l'arte e la musica: Adolf Hitler...in verità, ci sono persone che le tentano tutte per vivere e risolvere i propri problemi, anche affidandosi a rimedi improbabili. Non bisogna giudicare, ma comprendere. io pure del resto incontrai a Villa Ada una vecchietta molto strana. Correva tutta vestita di nero con il foulard in testa e la gonna nera che gli arrivava ai piedi. All'inizio mi misi a ridere come uno stupido, ma poi, al terzo o quarto giro che aveva compiuto per tutta la villa, volli fermarla e parlarci un poco. Aveva suscitato nel mio cuore non so quale pena diffusa. Non mi degnò di uno sguardo. Solo dopo che ebbe finito di correre, e passò circa una buona mezz'ora, si arrestò e potei avvicinarla. Gli chiesi se stava bene e il senso di quella corsa così fornsennata e lei mi rispose con gli occhi arrossati :"Per non sentire la solitudine, figliolo mio".
    Non l'ho più rivista. Chissà se è riuscita mai a sfuggire ai suoi fantasmi...

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    Risposte
    1. Ecco il bello di vivere nelle grandi città: la varia umanità che vi s'incontra, poi i parchi coi i loro livelli di ossigeno mediamente più alti, sono luoghi particolari; comunque lungi da me la pretesa di giudicare chicchessia. Semplicemente ci si esercita, con Cristiano, ad andar oltre l'apparenza delle cose che è un'attività molto utile a genitori mentalmente inquieti come noi, basta metterci, oltre a tutta la serietà che necessita, anche un bel po di autoironia.

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