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La partita sul terrazzo


Il muretto sarà alto un metro e mezzo al massimo. È per questo che il pallone con cui giochiamo a calcio sul terrazzo è sgonfio. Perché non rimbalzi troppo, con il rischio che vada a finire di sotto e colpisca qualcuno di passaggio. È pur vero che di persone ne passano poche sotto casa in questi giorni e comunque è capitato, alcune volte, che la palla finisse in strada. È andata sempre bene, per fortuna.
Il pallone che usiamo per giocare sul terrazzo non lo abbiamo sgonfiato apposta. È bucato. Lo aveva morso il nostro cane Spot a Villa Borghese, qualche tempo prima che ci chiudessero tutti in casa. Non so perché non lo avessimo buttato via subito, quel giorno. Adesso in ogni caso ci serve, per il motivo che ho detto. 
Il terrazzo non lo abbiamo mai frequentato prima del coronavirus, i miei figli non c'erano mai stati. È uno di quei posti che appartengono a tutti i condòmini e che, proprio per questo motivo, non sono di nessuno, perché nessuno ha bisogno di andarci e tutti vogliono che anche gli altri non ci vadano.
È rimasto com'era quarant'anni fa, la prima volta che l'ho visto. Ci sono ancora i lavatoi, soltanto che me li ricordavo più grandi. Sono vasche di cemento consumato, due cubi non più lunghi di settanta centimetri per lato. Accanto a questi, da una tettoia di legno, di un marrone così scuro da sembrare bruciato e che ancora resiste alle intemperie, partivano i fili sui quali un tempo le lavandaie appendevano il bucato. Altri fili oggi attraversano il cielo sopra il terrazzo, quelli delle antenne delle tv sparse un po' ovunque e da cui corrono per convergere verso i muri perimetrali del cortile interno. 
Ci sono cassoni per l'acqua e rubinetti arrugginiti, fili elettrici e avanzi di mattonelle e piastrelle, su questo campo da calcio improvvisato, e tettoie di plastica. Ma c'è anche un bel panorama: oltre alle ville liberty del quartiere, in lontananza davanti a noi la statua d'oro del Cristo Redentore della chiesa del Sacro Cuore di Gesù, un po' più a destra le quadrighe dell'Altare della Patria e poi la torretta del Quirinale con la bandiera a mezz'asta. Villa Borghese è alle nostre spalle, ma i suoi alberi sono coperti dai palazzi troppo vicini al nostro per lasciarceli intravedere. 
La vista più bella però è quando incrociamo altri ragazzi che come noi giocano sui propri terrazzi. Sono distanti e non sappiamo nemmeno chi siano, ma è bello sapere che anche qualcun altro ha avuto la nostra stessa idea. Non ci sentiamo soli, anche se non siamo certi che anche loro ci stiano vedendo, ma è sicuro che adesso a osservarci sono i gabbiani, che ogni tanto volteggiano sopra le nostre teste, e anche le rondini, che arrivano più tardi, un'ora prima del tramonto, a guardare questi strani animali che corrono dietro a un pallone rotto.
Giochiamo delle partitelle, uno contro l'altro, i ragazzi a contendersi una sfera sgonfia, con me che sto in porta e più che altro passo il tempo a recuperare la palla che ha bucato la rete, oltre le mie spalle. Sono gare che di solito non durano più di quindici minuti, perché prima o dopo i calciatori finiscono sempre per litigare: per un gol non conteggiato, per un fallo subito, per un calcio di rigore non assegnato. Io sono il portiere e l'arbitro da contestare, perché secondo i miei figli sto sempre dalla parte di chi, di loro due, di volta in volta non ho sfavorito con le mie decisioni. È il destino degli arbitri quello di prendersi i fischi, così come quello dei portieri subire dei gol. Ma alla fine della partita tutto finisce sempre con una risata, quando per punizione impongo ai giocatori una serie di esercizi ginnici che li stremano: ridono quando non ce la fanno più a tenere le braccia tese e ridono anche quando fanno le flessioni e uno dei due si poggia sulla schiena dell'altro nel bel mezzo di una serie di ripetizioni da cinque.
L'ultima volta che abbiamo giocato sul terrazzo abbiamo messo un po' di musica dal telefonino: ero più stanco del solito e non avevo tanta voglia di correre. Sarà stato lo scirocco a sconvolgerci. Fatto sta che il figlio grande fa partire una canzone che non conoscevo e, alle prime note, il più piccolo si butta per terra e si mette a piangere, dicendo al fratello di spegnere quella musica.
Gli dà retta, spegniamo tutto, chiedo spiegazioni, nessuno mi risponde, intuisco qualcosa ma aspetto di sapere, è inutile adesso fare domande. Ci sediamo su alcune sedie di plastica, il piccolo si mette sulle mie ginocchia e mi abbraccia stretto. Non ci diciamo niente mentre stiamo così, tutti vicini, per un tempo che sembra fatto di ore e che invece dura soltanto alcuni minuti, con il panorama delle case che scompare di fronte ai nostri occhi, chiusi per lasciare spazio a un'ipotesi di mare.
Sotto il vento di scirocco, restiamo immobili in un mare più grande di noi, che sommerge tutto di quel terrazzo decrepito, dalla ruggine alla plastica, al cemento, ai muretti che si sgretolano, al pericolo che il pallone vada a finire di sotto, alle porte immaginate fra muri sbilenchi...
Ci lasciamo naufragare fin quando decidiamo di tornare nel nostro appartamento. Una delle prime cose che, appena siamo in disparte, chiedo al figlio grande è di farmi ascoltare la canzone che ha rattristato il piccolo. La trova, l'ascolto, l'accompagna un video che parla della vita di un cane all'interno di una famiglia, da quando è cucciolo a quando muore.
È la storia, la stessa che si ripete da migliaia di anni, di questi nostri fedeli amici a quattro zampe, che hanno il destino di vivere meno degli uomini, per un tempo infinitamente più breve dei loro familiari umani.
Perché tali sono, l'ho già raccontato altrove: fratelli, con i quali condividiamo fiducia e attenzioni. E anche il destino, se amare significa seguire l'altro, anche con il solo sguardo, ovunque egli vada e perfino dove non possiamo ancora andare, lasciandogli trattenere, mentre si allontana, qualcosa di indefinito  e di profondo che ci appartiene e a cui spesso, non sapendo bene di cosa si tratti, diamo il nome di cuore.

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