Passa ai contenuti principali

La natura, la commedia umana e la pietas


Quanto state per leggere non ha apparentemente né capo e né coda. E, dato che ho avvertito, parto immediatamente con una divagazione proprio per criticare questo strano modo di dire con cui ho appena aperto: in ogni faccenda umana c'è sempre un inizio e una conclusione. E' invece ciò che sta nel mezzo a essere talmente articolato e complesso da apparire completamente disarticolato e sconnesso. Ed è per questa ragione che le conclusioni difficilmente corrispondono alle premesse. Insomma, sia il capo che la coda esistono, mentre ciò che spesso manca è la corrispondenza fra l'uno e l'altra.
Inizio con un discorso sulla natura che mi serve da contraltare per arrivare a farne un altro sull'assurdità della commedia umana. Non solo amo gli animali, ma amo tutto ciò che è naturale e che esiste senza aver subìto l'intervento modificatore dell'uomo. E, dato che ho voglia di essere estremo, dirò che amo perfino i terremoti e le eruzioni vulcaniche, per il semplice motivo che sono manifestazioni sismiche oneste: il risultato evidente di un moto sotterraneo, energia di gas e lava, la piccola resistenza di una sottile crosta terrestre che nulla può contro quella forza irresistibile, un'esplosione che è la conclusione evidente e ovvia di un processo, il puro effetto di una pura azione. Allo stesso modo e per le stesse ragioni, amo il vento che non conosce ostacoli, così come il mare in tempesta per il quale ogni scoglio ha forza contrastante pari a un granello di sabbia. Ma amo anche il fiore, altrettanto potente come l'oceano, che buca l'asfalto, che dal buio dov'era nascosto cerca la luce e la trova e che magari vive soltanto per un'ora, prima di essere schiacciato dalla suola di un passante distratto.
Amo gli animali perché sono trasparenti e si comportano come devono, seguendo il proprio istinto. Conosco soprattutto il cane, l'animale domestico per eccellenza, il confronto costante fra natura e uomo proprio per la sua stretta convivenza con quest'ultimo. Ne amo in particolare l'aspetto cinico, nel senso stretto del termine e che deriva proprio dal nome di questo animale: il cane vive a diretto contatto con l'essere umano, ma al contrario di esso non prova vergogna o imbarazzo per i propri comportamenti, non ha bisogno di stabilire delle convenzioni con lui e con i propri simili, manifesta in continuazione i propri sentimenti e non ha nulla da dimostrare al padrone, nemmeno la propria fedeltà, dato che essa è un aspetto naturale e scontato e non da presentare come fosse un conto, alla fine di un pasto, in cambio di una contropartita. 
Mi piacerebbe che l'aspetto cinico che il cane ci insegna prendesse il posto della morale che ci accompagna e della commedia che recitiamo tutti i giorni. Commedia in senso buono - attenzione - non come ruolo falso e che a volte interpretiamo. Mi riferisco alle convenzioni sociali che abbiamo adottato, trasmesseci anzitutto dai genitori fin da quando siamo neonati e poi sempre più radicate via via che gli anni passano e diventiamo adulti. 
In passato mi è capitato - e questo è il capo oppure la coda, non lo so più nemmeno io, di questa riflessione, di sicuro ne è il pretesto - di assistere a comportamenti convenzionali da parte di persone che non avevano più nulla da perdere: la loro stessa vita era compromessa una volta per tutte, soltanto una questione di ore e sarebbero sparite per sempre dalla faccia della terra. Eppure, conservavano un comportamento che, con un termine odioso, definiremmo dignitoso, laddove per dignità intendiamo probabilmente la serie di argini che ci permettono di conservare la nostra compostezza. Insomma, non un urlo, neppure una sillaba, né una sola lacrima o un rimpianto pronunciato ad alta voce. Non soltanto l'assenza totale di una minima manifestazione di dolore, ma nemmeno quella di un dispiacere: tutto talmente trattenuto e assopito, fino alla fine. Per quale motivo - mi sono chiesto: la forza dell'abitudine? La rassegnazione, che quando esiste realmente è muta? La paura, fino all'ultimo, di esporsi, di far sapere agli altri che ci si sente vulnerabili, senza speranze, arresi?
Cercando di trovare una giustificazione al comportamento di trattenere il dolore e il dispiacere e di non manifestarlo, mi è venuto in mente - per opposizione o per continuità logica, non saprei, dato che le due distinte manifestazioni sono spesso assimilabili - il sorriso contagioso dei miei figli. Il sorriso che ha senso solamente se condiviso e partecipato: perché quando ridiamo cerchiamo una conferma nel sorriso di chi ci guarda? Perché desideriamo ridere insieme? Perché più l'altro ride e più, a nostra volta, ridiamo? E perché non avviene altrettanto con il dolore? Perché, quando piangiamo, non desideriamo che anche chi ci sta davanti pianga, ma, al limite, ci consoli? E, per l'ultima volta, perché quando soffriamo, a volte facciamo addirittura finta di nulla e ingoiamo le nostre stesse lacrime?
Non ho saputo trovare delle risposte a questi interrogativi, ma mi è venuta in mente una parola appresa al liceo e, anche se non so se c'entri qualcosa con tutta questa storia, la riporto ugualmente: è pietas. Mi sembra un buon motivo, la pietas, per tacere, per non esprimersi...addirittura, per non far dispiacere agli altri, a chi ti sta accanto e ti sopravviverà. Trovo in questo termine l'unica giustificazione valida per continuare a fare, fino all'ultimo giorno che ci rimane, la propria parte in commedia.
Credo sia proprio la pietas la spiegazione, la coda di un ragionamento ancora una volta poco razionale e, con tutta probabilità, molto sconnesso, dal momento che si proponeva presuntuosamente di trovare e tirare fuori un minimo bandolo da una delle matasse ingarbugliate che compongono le nostre vite. Proprio la pietas: questo sentimento umano e talmente vicino al comportamento animale, l'unica soluzione che, immagino, nella commedia possa prendere il posto del cinismo.

Commenti

  1. Ciao Cristiano, mi viene in mente che filogeneticamente parlando il sorriso comunica una situazione di benessere: ride il bambino che è sazio e non è malato e probabilmente, nella stessa situazione, rideva anche il cavernicolo e, ancor prima di parlare, ridendo, creava i primi gruppi sociali. "Tutti dietro all'uomo ridens, ché se ride lui magari ridiamo anche noi" (se ci pensi la cosa ha egregiamente funzionato anche in tempi recenti). Il potere di chi sorride e fa sorridere sta in questa promessa di benessere. Per le stesse ragioni il pianto, indicatore di malessere non è considerato desiderabile. Magari, quando consoliamo qualcuno, non stiamo compiendo altro che un atto magico: "Tolgo il dolore a te affinché esso non colpisca anche me".
    E magari la "pietas" non è altro che uno strumento raffinato e razionale (difatti implica senso del dovere e consapevolezza) per mandare avanti la commedia. Tuttavia ti invito a considerare che a volte si può anche essere "gelosi" delle proprie sofferenze per cui si preferisce soffrire in silenzio piuttosto che rischiare di farcele togliere. Sembra paradossale ma è verosimile.
    Starei ore qui a pensare ma l'ora è tarda e di risposte strampalate alle tue enigmatiche domande ne ho già date abbastanza. A presto

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

La partita sul terrazzo

Il muretto sarà alto un metro e mezzo al massimo. È per questo che il pallone con cui giochiamo a calcio sul terrazzo è sgonfio. Perché non rimbalzi troppo, con il rischio che vada a finire di sotto e colpisca qualcuno di passaggio. È pur vero che di persone ne passano poche sotto casa in questi giorni e comunque è capitato, alcune volte, che la palla finisse in strada. È andata sempre bene, per fortuna. Il pallone che usiamo per giocare sul terrazzo non lo abbiamo sgonfiato apposta. È bucato. Lo aveva morso il nostro cane Spot a Villa Borghese, qualche tempo prima che ci chiudessero tutti in casa. Non so perché non lo avessimo buttato via subito, quel giorno. Adesso in ogni caso ci serve, per il motivo che ho detto.  Il terrazzo non lo abbiamo mai frequentato prima del coronavirus, i miei figli non c'erano mai stati. È uno di quei posti che appartengono a tutti i condòmini e che, proprio per questo motivo, non sono di nessuno, perché nessuno ha bisogno di andarci e tutti vog

Coronavirus: il lockdown e le ripercussioni sui figli minori dei genitori separati

Intervista all’avvocato Antonella Laganella, giudice onorario Corte d’Appello di Campobasso, sezione minori Riaprire o lasciare tutto ancora chiuso, ripartire insieme oppure a due o a tre velocità: mentre si discute sulle modalità di allentamento del lockdown e su come gestire la Fase-2 nell’ottica di un ritorno graduale alla normalità dopo l’epidemia, diventano sempre più problematici, a causa delle limitazioni agli spostamenti per contenere l’epidemia da coronavirus, i rapporti fra figli minori e i genitori non collocatari all’interno delle famiglie con coniugi separati. Ne parla all‘Adnkronos l’avvocato Antonella Laganella, giudice onorario della Corte d’Appello di Campobasso, sezione minori, che sottolinea quanto le misure urgenti adottate dal Governo abbiano inciso sui rapporti fra figli e genitori non collocatari. "Le conflittualità tra ex coniugi si sono intensificate - spiega l’avvocato Laganella - di pari passo con la crescente incertezza sull’interpretazione d

Quando siamo costretti ad ascoltare un racconto sbagliato

Una delle peggiori forme di violenza che può capitarci di subire è il racconto sbagliato di ciò che ci accade. Trovo delittuoso - non ho altri termini per definire qualsiasi tentativo di mistificazione - il voler far passare una cosa per un'altra, appositamente, come se fossi tu a non capire e a non renderti conto di ciò che hai intorno: essere trattato, in una parola, come uno scemo. Sono incapace di tollerare che si scambi la verità con la finzione, non riesco a concepire la possibilità di intercambiabilità dell'una con l'altra, con la prima che diventi falsità e la seconda assurga a Verbo e a voce di Dio o, più semplicemente, a resoconto puntuale. Eppure, sono molti a credere alle chiacchiere, a farsi soggiogare più dal suono delle parole, che ad ascoltarle criticamente, cercando di coglierne il significato. La voce, spesso, ha più peso della sostanza che una frase esprime: siamo più ascoltatori di suoni che di significati. E chi parla, spesso, si sente e si pone su