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Ospedale per bambini

Prima o poi doveva succedere, di finire all'ospedale. E' capitato anche a Dodokko la scorsa settimana. Niente di grave, ora che tutto è finito. Ma finchè siamo rimasti lì, è stato come se il mondo ci fosse crollato improvvisamente sulla testa. Sei giorni di violenze per guarire, non si sa ancora bene da cosa. Sei giorni di disperazione da dover nascondere agli occhi di un bambino, ma che - lo so con sicurezza - in qualche modo Dodokko ha avvertito.
Di questo, appunto, voglio parlare: delle violenze inflitte ai piccoli pazienti e della disperazione dei genitori nei reparti di pediatria degli ospedali. Tacerò invece sugli argomenti che riguardano come sempre la sporcizia delle camere da letto e dei servizi igienici, il vitto scadente e improponibile, così come non mi sbilancerò sulle terapie "a scopo puramente preventivo" senza la presenza di alcuna diagnosi particolare, ma soltanto di..."ipotesi di diagnosi". Su questi temi, la mia opinione è tutta qui e non mi va di andare oltre: la medicina non è una scienza esatta: nella maggior parte dei casi si guarisce grazie a un proprio buon sistema immunitario e in ospedale ci si sta soltanto per controllare (monitorare: ma quanto e come?!) che la situazione non si aggravi ed eventualmente non precipiti.
Dunque, le violenze in ospedale. Qualsiasi azione, anche a fin di bene e di guarigione, si compia su un bambino è violenta: anche mettergli un termometro sotto l'ascella, se lo fa un infermiere sconosciuto, può essere un'esperienza traumatica. Figuriamoci cosa può essere il tentativo di infilare una cannula in una vena per idratarlo da una flebo! Eppure, anche i più piccini sono spesso dei numeri. E, come al supermercato, dopo il primo "avanti il prossimo, chè qui non c'è tempo da perdere!". E giù mani enormi che immobilizzano ogni tentativo di contorcersi, fra stupide storielle raccontate allo scopo di distrarre l'attenzione del piccolo nel momento cruciale della perforazione. E via con "i pizzicotti", come vengono chiamate le iniezioni intramuscolari, mentre le rassicurazioni dei genitori ("è un attimo" o "è l'ultima") si sprecano e si perdono fra le urla di chi non conosce ragioni. E vai anche e perfino con il misterioso e indolore anello che si infila su un dito della mano e che serve (ma il bambino non lo sa!) soltanto per misurare la pressione e la frequenza cardiaca.
Ciò che servirebbe negli ospedali e specialmente nei reparti pediatrici è una maggiore umanizzazione del personale sanitario. Porca miseria, sono bambini! Un po' di tatto, un po' di sensibilità, un po' di pazienza: se non sono pazienti per primi i medici e gli infermieri, come si può pretendere che lo siano gli stessi pazienti?! Di tatto e di sensibilià, poi, è vero che oggi non ce n'è quasi più in giro. Ma di fronte a degli infermi come è giustificabile, ad esempio, il boato della porta della camera che si apre di pomeriggio, mentre Dodokko dorme dopo che la notte precedente non ha chiuso occhio? Come è possibile che l'infermiera, invece di parlare a bassa voce quando entra nella stanza, urli o canti mentre sparecchia e sbatta di continuo piatti e coperchi? Anche questa è violenza. E perfino la festa di Natale organizzata dalla Croce Rossa lo è, se i volontari, dalle 15 in punto iniziano a entrare in camera ogni 10 minuti per avvisare, 'col megafono', che nella stanza affianco ci sono giocolieri e pagliacci pronti a intrattenere i piccoli ospiti dell'ospedale. Lo fanno come se fossero gli animatori di un villaggio vacanze della Valtur, solo che qui, sui letti, ci sono bimbi malati e indeboliti che magari alle tre in punto del pomeriggio preferiscono continuare a riposare piuttosto che andare ad assistere alle performance di improvvisati intrattenitori.
E, infine, la disperazione dei genitori. All'origine della quale c'è una assoluta mancanza di comunicazione con i medici. Vorrebbero sapere cosa ha il figlio, di cosa si è ammalato e fra quanto sarà dimesso. Ma si accorgono presto che i dottori sono edottissimi nel saper non rispondere: "Vediamo come evolve la situazione", dicono. "Stiamo facendo tutti gli accertamenti", garantiscono. "Le analisi effettuate sono tutte buone", annunciano. "Ma, allora, fra quanto esce mio figlio?". Mistero. "Noi lo lasceremmo ancora un po', sa, per precauzione...". E intanto antibiotici, perchè non si sa mai che in ospedale non si ammali: "Vede, ci sono le malattie nosocomiali". "Ma perchè, se sta bene, continua ad avere quel mal di pancia? Non potrebbe avvalersi della consulenza di un gastroenterologo?". "Qui non si fanno consulenze, ma fa tutto il medico-pediatra-generalista", è la risposta assurda e terribile..."Poi, se non avete fiducia, firmate e andate da qualche altra parte...", No comment!
E intanto il bimbo dimagrisce, è avvelenato da farmaci probabilmente inutili, ma prescritti inevitabilmente dal protocollo, subisce ogni giorno e ogni sera un assalto terapeutico. E i genitori sono sconfitti, anche loro ricoverati e non sanno come uscire dallo stallo e dalla disperazione. Finchè un bel giorno arriva improvvisa la decisione sperata ma a cui nessuno credeva ormai più: le dimissioni, il ritorno a casa, alla normalità, al sole che ci aspetta da quasi una settimana, lì di fuori. "A patto, però, che tra quattro giorni portiate qui vostro figlio per la visita di controllo". "D'accordo, abbiamo fatto trenta..."

Commenti

  1. Caro Cristiano,
    un augurio speciale a te e ai tuoi cari, per un felice 2010. E complimenti, ancora, per le cose che scrivi (a proposito, tutta la mia solidarietà per l'esperienza ospedaliera: in questo periodo sento molti resoconti simili al tuo - forse troppi, tanto da farmi sospettare che ci sia una sorta di epidemia di cui non si parla - e tutti sono da brividi). Ciao. Maurizio Quilici

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  2. Ciao Cristiano,
    questo tuo post potrei averlo scritto io due anni fa.
    Stessa situazione di incertezza ( con in più mio figlio che stava bene, senza neanche il mal di pancia ).
    stessa disperazione per la sensazione che qualcosa ci fosse taciuto: analisi senza senso e senza diagnosi reale ( ipotesi di diagnosi nemmeno condivisa con noi genitori ), sporcizia poca per fortuna, ma malattie "nosocomiali" come la gastroenterite che ha colpito un sacco di bambini in degenza ( per fortuna il mio no, ma che ansia dovergli evitare di mettersi le mani in bocca dopo aver giocato con i giochi presenti nella saletta apposita )...

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  3. Ciao
    la vostra famiglia assomiglia molto alla nostra e soprattutto mi sembra di leggere cose che il papà dei miei piccoli vorrebbe scrivere. Anche noi abbiamo avuto una terribile esperienza di ospedale, mentre io aspettavo Coticò; il nostro bambino se ne stava andando, lo vedevamo spegnersi, diventare sempre più leggero e apprestarsi a volare via. La diagnosi l'avevamo fatta da giorni e alla fine volevamo solo che un chirurgo "aprisse". E' dilaniante vedere il proprio leoncino diventare un gatto di pezza, sentirsi a tratti impotenti, a tratti arroganti e a tratti vigliacchi per sapere nel dettaglio cosa gli sta succedendo ma mantenendo il beneficio del dubbio di fronte a colleghi molto più qualificati: e soprattutto è dilaniante sperare che gli taglino la pancina per riportarlo qui, per lavare via quella roba che il suo sistema immunitario non sarebbe mai mai mai riuscito a debellare... Però in tutto quel dolore abbiamo trovato anche -non solo, purtroppo- persone speciali: in particolare un infermiere. Non so dire cosa abbia fatto di particolare ma non dimenticherò come si è commosso quando il mio piccolo ha ripreso a comunicare e gli ha fatto ciao con la manina tutta fasciata.

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  4. Ciao, piacere di conoscerti. Spero che tuo figlio stia bene adesso. Sì, esistono anche persone speciali. Rare e, proprio per questo, speciali.
    Auguri di cuore, Cristiano

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