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Se figlio e papà sono amici: l'in-dipendenza

Un post dal titotolo 'In-dipendenza' sul blog 'Psicologica_mente' di Lella Contursi sui 'comportamenti di addiction' recentemente è stato lo spunto per parlare, ancora una volta, di dipendenza, di reciprocità e di rapporto paritario nella relazione fra genitori e figli. Lo scambio di opinioni che è nato sul sito di Lella è interessante, tanto che ho voluto replicarlo in questa sede. E, ovviamente, qualsiasi contributo verrà apportato alla discussione sarà 'dirottato' anche su Psicologica_mente.

Cristiano: Alla base della relazione di amicizia, per come la penso io, ci deve essere la condizione della reciprocità. Cosa che manca in qualsiasi comportamento di addiction. Dipendere da qualcosa o da qualcuno è una cosa terribile e dannosa e dimostra il poco senso di rispetto che nutriamo verso noi stessi.
Persino nel rapporto genitori-figli, non amo la dipendenza degli uni nei confronti degli altri, e auspico invece una relazione paritaria, anche se basata sul confronto e sulla critica.
C'è chi sostiene che figli e genitori non possano e non debbano essere amici, in quanto la loro relazione non può e non deve essere paritetica, con i primi dipendenti dei secondi.
Ecco, io non sono affatto d'accordo con questa visione: non voglio e non mi piacciono i figli 'genitori-addicted'.

Lella: Il tuo punto di vista è stimolante, anche se mi trova d'accordo solo in parte. In effetti la condizione di parità di cui parli è suggestiva, ma non proprio realistica. Come può essere paritario un rapporto in cui io detto le regole, in quanto genitore e responsabile della tua educazione, e tu sei "costretto" a rispettarle. Certo io posso spiegartele, aprire con te un confronto, ma alla fine, che tu lo voglia o meno, sei costretto a fare come dico io. Questo serve ai figli, quando sono piccoli, ad interiorizzare le regole (cosa che permetterà loro di distinguere il bene dal male), e quando sono adolescenti a giocare il classico "elastico", contestando, arrabbiandosi e differenziandosi. E' attraverso questo gioco che si riesce ad affermare la propria identità. Sono invece d'accordo sul fatto che questa relazione non sia e non debba essere, una relaizone di "dipendenza", anzi, al contrario, credo che sia la vera e genuina relazione di Indipendeza e Identità che porta ciascun individuo a diventare Uomo.

Cristiano: per me un rapporto è paritario quando si dialoga e si discute e in quanto i due interlocutori possono esprimere liberamente i propri punti di vista, giungendo a un risultato soddisfacente per entrambi. Per quanto riguarda la successiva decisione da prendere, la cosiddetta 'sintesi', essa sarà il risultato delle reciproche posizioni, non una forzatura. Nella maggior parte dei casi, la sintesi, la ragione, sarà più vicina al genitore (che in teoria e date le proprie maggiori esperienze dovrebbe sapere più cose del figlio). Soltanto quando il figlio non converrà con le ragioni (la ragione) del genitore, quest'ultimo lo forzerà a obbedire.
Il rapporto, a quel punto, non sarà più paritario? Non credo, perchè il primo che avrà 'violato' il patto del dialogo e del ragionamento sarà stato il figlio. Il quale, in tal modo, si sarà posto su un piano anti dialettico nei confronti del genitore e avrà adoperato per primo una forzatura. Alla quale ne avrà contrapposta una anche il genitore, probabilmente entrando così in una sfera di (temporanea) conflittualità col figlio ma ristabilendo in realtà una relazione paritaria, perlomeno sul piano delle reciproche forzature.
E' chiaro, sarebbe stato preferibile non giungere a tanto, ma perchè anche la conflittualità e le forzature rimangano parte di una relazione paritaria, è necessario che alla forzatura non si sostituisca la forza, maggiore, del genitore. Insomma, la forzatura sia 'calibrata' su quella del piccolo.
Poi, può succedere che il figlio abbia ragione e il genitore torto. E qui è il genitore a dover compiere un gesto enorme di umiltà e riconoscere il proprio errore: così facendo il genitore, anche qui verrebbe rispettata la parità del rapporto.

Lella: Quando un individuo ha torto e riesce ad ammetterlo, dimostra di essere in grado di non confondere il riconoscimento dei propri limiti con la debolezza. Questa capacità appare tanto più importante con i propri figli, in relazione al fatto che acquisisce anche una valenza educativa. In relazione alla declinazione di questo nostro confronto, vorrei rilanciare il dibattito sulla questione della dipendenza/indipendenza. Il rischio forte che intravedo nella generazione di genitori che ho occasione di conoscere, sia al servizio di Tutela Minori che in consultazione, è quello in un certo senso opposto a quanto paventato da Cristiano: non figli "genitori addicted", ma genitori "figli addicted". Sembrerebbe una questione di lana caprina, o un puro esercizio lessicale, se non fosse che, quando si perdono le distanze (dipendere è perdere le distanze tra me e l'altro), non si è più in grado di permettere all'altro quegli spazi propri che sono il nucleo centrale della differenziazione.
Un esempio che mi torna alla mente è quello di una madre che, al rifiuto del figlio di andare a scuola, si ritrova nell'incapacità di mantenere una funzione educativa, e quindi di affrontare il conflitto, per timore di "perdere" l'affetto del figlio.
E' suggestiva dunque l'idea che tu proponi di un rapporto tra pari, ma richede una maturità e un equilibrio tali da permettere di non perdere mai di vista che si è genitori con tutti gli oneri che questo ruolo comporta.
Infine vorrei ringraziare Cristiano per l'iniziativa di "gemellaggio" di due blog, nati con presupposti differenti, ma che in comune hanno l'amore e l'interesse per la discussione e il confronto.

Cristiano: Su questo punto sono completamente d'accordo con Lella: "quando un individuo ha torto e riesce ad ammetterlo, dimostra di essere in grado di non confondere il riconoscimento dei propri limiti con la debolezza". E concordo anche sul fatto che una tale capacità di ammissione dei genitori sia un buon insegnamento per i figli. Evidentemente, così come esistono genitori 'figli-addicted', ci sono anche figli 'genitori-addicted'. Ma il rapporto fra pari di cui parlo non contempla, in nuce, tale possibilità, né da una parte e né dall'altra. Se così non fosse, infatti, si tratterebbe di un rapporto di dipendenza e non basato sulla parità. Parità e onestà che deve essere mantenuta, oltre che principalmente nel dialogo, anche nelle situazioni di conflittualità. Dove nessuno dei due contendenti deve mai arrendersi, se non convinto, ma eventualmente deve concordare, una volta persuaso, con le ragioni dell'altro. Il che non è dipendenza, ma una decisione liberamente presa.

Antonella: io penso che il rapporto genitori figli si evolve nel tempo: quando i bambini sono piccoli sono dipendenti dai genitori, dal momento in cui i figli diventano intelocutori dei genitori il rapporto diventa alla pari, e successivamente quando i genitori invecchiano i ruoli si ribaltano e diventano dipendenti dai figli che spesso tendono a liberarsene come un peso. Fortunatamente il periodo del rapporto alla pari è quello più lungo e il confronto è necessario anche se in alcuni casi si arriva allo scontro verbale per le posizioni assunte.

Cristiano: Cara Antonella, la tua è una bella osservazione. Esistono infatti situazioni simili a quelle che descrivi. E sono anche le più comuni. Però ci sono anche situazioni nelle quali i piccoli non dipendono dai genitori, quando cioè, anche se figli piccoli, sono ugualmente interlocutori di genitori capaci di ascoltarli e di comprenderli. Esistono inoltre circostanze nelle quali figli e genitori non hanno un rapporto paritario, nemmeno in fasce di età medie e anagraficamente vicine fra loro. Infine, ci sono figli dipendenti di genitori anche anziani. In conclusione, forse è proprio il rapporto di dipendenza quello che dura più a lungo nel tempo, non la tanto auspicata indipendenza. Comunque, non solo sono d'accordo con te sul fatto che il rapporto fra genitori e figli si evolva nel tempo, ma probabilmente anche sul fatto che la questione della dipendenza-indipendenza degli uni verso gli altri sia cosa mobile, che si trasforma l'una nell'altra continuamente.

Lella: Concordo con Cristiano, ciascuno di noi oscilla continuamente sul un immaginario continuum dal polo della dipendenza a quello dell'indipendenza. Inoltre io penso che nessuna relazione al mondo può rimanere uguale a se stessa nel tempo. Credo che la staticità di una relazione sia in realtà una "non relazione". I rapporti, infatti, si costruiscono in una dinamica continua, fatta dai cambiamenti di ciascuno su se stesso e sull'altro. Certo è che nel tempo i rapporti mutano anche in base alle diverse esigenze che si mettono in campo ed è l'attenzione all'altro che ci permette di coglierle e di non vivere della sola idea che dell'altro ci siamo fatti.

Commenti

  1. io penso che il rapporto genitori figli si evolve nel tempo: quando i bambini sono piccoli sono dipendenti dai genitori, dal momento in cui i figli diventano intelocutori dei genitori il rapporto diventa alla pari, e successivamente quando i genitori invecchiano i ruoli si ribaltano e diventano dipendenti dai figli che spesso tendono a liberarsene come un peso. Fortunatamente il periodo del rapporto alla pari è quello più lungo e il confronto è necessario anche se in alcuni casi si arriva allo scontro verbale per le posizioni assunte.
    Antonella

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  2. Concordo con Cristiano, ciascuno di noi oscilla continuamente sul un immaginario continuum dal polo della dipendenza a quello dell'indipendenza. Inoltre io penso che nessuna relazione al mondo può rimanere uguale a se stessa nel tempo. Credo che la staticità di una relazione sia in realtà una "non relazione". I rapporti, infatti, si costruiscono in una dinamica continua, fatta dai cambiamenti di ciascuno su se stesso e sull'altro. Certo è che nel tempo i rapporti mutano anche in base alle diverse esigenze che si mettono in campo ed è l'attenzione all'altro che ci permette di coglierle e di non vivere della sola idea che dell'altro ci siamo fatti.

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