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Tempo di bilanci

Voglio fare un bilancio dell'inverno appena trascorso soltanto sul calendario e che qui, alle mie latitudini e non per questioni metereologiche, ancora persiste, gelido e pesante. Voglio farlo con lo sguardo rivolto verso due direzioni: mio figlio, la mia famiglia, la mia 'media' classe sociale e verso il cosiddetto ceto 'alto', con cui ogni tanto mi capita di entrare in contatto.

Quella non ancora terminata e che è iniziata addirittura a ottobre non è stata, dal punto di vista della salute, una buona stagione nella mia famiglia: ogni mese, a rotazione o contemporaneamente, ci siamo presi dei malanni, a partire da Dodokko, l'anello più debole della catena, che è riuscito a frequentare il nido mediamente due settimane di fila su quattro. Ogni 15 giorni, infatti, lo ha colpito la febbre assieme alla bronchite o alla gastroenterite o altra malattia esantematica.

Tempo 48 ore e la stessa sorte è toccata ai genitori a turno o insieme, a causa - che puoi farci - dell'inevitabilità dei contatti con il figlio. Non voglio dire che la nostra è una famiglia con un sistema immunitario deficitario, anzi, quella nostra è la medesima situazione in cui vive la maggior parte delle coppie lavoratrici con prole, costrette, proprio dal fatto che non possono rinunciare al lavoro, ad affidare i figli all''asilo dell'obbligo' durante l'orario di lavoro.

Famiglie costrette, quindi, non solo ad allontanare da sé, in maniera innaturale e prematura, i figli - ma che vuoi farci se noi stessi siamo figli di questa anomala società - ma anche, successivamente a fare i conti con una nuova stagione di malattie e infezioni varie che non ricordavamo più dai tempi delle elementari e che oggi ci riprendiamo, tutte, assieme ai nostri bambini. Costrette, ancora, a riavvicinarsi a loro soltanto in tali casi d'emergenza: grazie al fatto che stiamo anche noi male e che, quindi, non possiamo recarci al lavoro oppure grazie all'utilizzo di giornate di ferie o di permessi, retribuiti o meno, per assistere i nostri piccoli cari bisognosi di cure (e qui un sentito ringraziamento speciale per tanta magnanimità va al nostro amato padrone-datore di lavoro).

La seconda direzione dello sguardo del mio bilancio - avevo detto, ma non voglio dilungarmici troppo come nella prima - va verso il ceto alto, che tante volte ho avuto la fortuna di poter osservare da vicino, 'in azione' con i propri rampolli. Sto parlando di politici, imprenditori, personaggi dello sport, attori, insomma, gente in carriera che non rinuncerebbe mai a una convention, a una conferenza stampa, a una riunione, a una partita, a un provino, eccetera eccetera per star vicina ai propri figli ammalati. A questo pensano - e sono profumatamente pagate per farlo - orde di tate, prestigiose baby sitter made in UK e, in casi di emergenza, primari sempre reperibili per visite a domicilio (personalmente, di rado posso contare perfino sul mio pediatra di base e assolutamente mai di sabato o di domenica).

Non penso affatto che quest'ultima categorie di persone, in tanti modi e per tante ragioni lontana da me, sia più fortunata della mia famiglia: non la invidio e credo anzi che viva in una sorta di schiavitù permanente nei confronti delle loro 'mission' professionali, dei loro tempi ristretti e delle loro agende. E' gente che si ritiene il centro del mondo, il sole verso cui 'gli altri', perfino i figli, devono guardare. Noi, invece, siamo la gente comune che, per quanto gli è possibile, pone al centro dell'universo i propri figli. Persone che non si arricchiranno mai e che ogni mattina vanno a lavorare con un nodo alla gola dopo aver dato un ultimo bacio ai loro bambini. Uomini e donne che si ammalano ogni volta che stanno male i loro figli e che per fortuna ancora guariscono assieme a loro.


Commenti

  1. Hai ragione anche stavolta. A volte penso che abbiano ragione loro, che sia più importante il lavoro, la realizzazione personale, poi gioco con mio figlio e ci facciamo prendere da crisi di risate incontenibili con passatempi puerili e realizzo che non mi divertivo così tanto da secoli e che nemmeno un premio Nobel potrebbe compensarne la mancanza.

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  2. caro cristiano, è una bella consapevolezza questa che tu richiami: poter star male con loro e con loro guarire. Ho imparato con parecchia fatica e "mal di pancia" non solo metaforici che il lavoro, qualsiasi lavoro, non vale MAI come il tempo dei miei figli o quello comunque passato con gli affetti: il problema casomai sta che se lo dice Bill Gates tutti che fanno "oooooohhhh, come ha ragione"; se lo dice uno di noi gli rinfacciano che è un lavativo e non si impegna abbastanza sul lavoro (leggi: "non riusciamo a sfruttarti abbastanza").
    Sul fatto che poi certi upper class si ritengano il centro del mondo, beh mi pare che sia "davvero" così: la nostra società è specchio di ciò, vale più un'attrice figa che ascoltare due minuti di qualcuno che abbia davvero qualcosa da dire. Mala tempora currunt, e quindi vincono loro...

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