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La staffetta


Ci improvvisavano campioni: alla scuola media e poi al liceo, da un giorno all'altro ci annunciavano: "Sabato prossimo c'è la corsa campestre" oppure: "C'è la staffetta". E, senza nessuna preparazione, senza alcun allenamento, quel sabato prima o poi arrivava e noi alunni ci ritrovavamo 'vomitati' a Villa Borghese dal pullman preso in affitto - nonostante la vicinanza al parco romano - per il motivo 'logistico' - suppongo - di tenere a bada gli studenti di un'intera scuola, non di una classe soltanto.
Andavamo poi a piedi, più o meno disordinatamente in fila, fino a Piazza di Siena oppure al Galoppatoio, come gladiatori dalle armi spuntate (almeno, così mi sentivo io) eppure pieni di coraggio. Non tanto certi di noi, ma comunque ottimisti riguardo l'esito della gara: il piazzamento sarebbe potuto essere buono, al limite grazie anche a una casualità, come la rinuncia improvvisa dei più forti oppure per un inaspettato stato di grazia personale. E se poi le cose fossero andate storte, non sarebbe stata una tragedia: mica ci giocavamo l'oro alle Olimpiadi!
No, non erano competizioni internazionali a cui partecipavano i campioni provenienti dai quattro angoli del pianeta. Ma, all'ultimo momento, proprio ai nastri di partenza, le aspettative dei giovani atleti diventavano all'improvviso massime. E io, come gli altri, non volevo sfigurare di fronte al professore di Educazione fisica e soprattutto di fronte a mio padre, che era lì a guardarmi, vicino alla siepe.
Lui mi aveva sempre incoraggiato, ma non mi aveva mai forzato a essere competitivo su quel terreno. Ma ai suoi tempi mio padre era stato un atleta dotato, praticamente un mito nel suo paese d'origine, soprattutto un grande numero 10 nel calcio. E io volevo assomigliargli almeno un poco, mostrargli che il figlio aveva saputo ereditare il suo talento nello sport.
E poi la corsa iniziava, i primi giri fatti con un'andatura sostenuta ma senza spingere al massimo, l'intenzione tattica di riversare tutte le forze nello sprint finale, un'accelerazione che sarebbe dovuta iniziare alla penultima curva prima del traguardo, la respirazione che avrebbe seguito il ritmo dei miei passi sul selciato. I compagni dapprima mi avrebbero sorpassato ma poi, vinti dalla fatica, avrebbero ceduto e io li avrei raggiunti, li avrei superati grazie alla mia andatura costante, moderatamente veloce.
Ero in testa, ma al terzo giro c'era sempre qualcuno che sopraggiungeva alle mie spalle. Qualcuno capace di correre veloce e di non sentire la stanchezza, qualcuno che era talmente disinvolto nella corsa che sembrava stesse facendo una passeggiata, non una competizione. Qualcuno che, infine, faceva saltare il mio schema: a quel punto, non dovevo, non potevo lasciarmi passare da quell'extraterrestre atterrato sul pianeta terra da chissà quale astro. E quindi aumentavo la velocità dei passi e, insieme, tutte le inspirazioni ed espirazioni a essi collegate. E poi, il cuore che pompava come un pazzo, il torace che doleva e la gola che bruciava. Dovevo arrendermi, ritirarmi, scrivere la parola "fine" sulla mia competizione se volevo salvarmi. "Fine della mia gara" e, un momento dopo, ero già sdraiato per terra a respirare soltanto, senza più correre, le pulsazioni del cuore che se ne andavano per conto proprio, dove volevano loro. La pressione a zero, il viso bianco come uno straccio, la pelle sudata e allo stesso tempo gelida.
Era questa la mia gloriosa corsa campestre e, a proposito e detto per inciso, l'alieno che aveva vinto era un tizio alto e magro che sotto sforzo aveva quasi la metà del numero delle mie pulsazioni a riposo. Non ho mai saputo il suo nome, ma - immagino - nella vita sarà diventato un campione mondiale in qualche disciplina sportiva aerobica.

La staffetta invece era un altro paio di maniche: si trattava di dividere con altri partner le gioie dei trionfi e i dolori delle sconfitte. La velocità della gara dipendeva dalla media dei risultati ottenuti da ciascun compagno di squadra. Io facevo la mia corsa e poi passavo il testimone a un altro ragazzo della mia età che avrebbe alzato o abbassato il tempo di percorrenza sul tracciato, avrebbe dato un margine di vantaggio alla squadra avversaria oppure avrebbe guadagnato metri preziosi e sorpassato l'atleta concorrente. Ciascun membro della stesso team avrebbe fatto vincere o perdere tutti noi e le responsabilità sarebbero state suddivise. Ma la bacchetta di legno che ci passavamo fra compagni era anche la testimonianza concreta di un passaggio di responsabilità: da quell'istante preciso l'esito della corsa era nelle mani di chi portava il testimone e nello stesso momento tutti gli altri erano, almeno per un poco, sollevati dai propri doveri. C'era, infatti, chi nella gara aveva già dato e chi doveva ancora mettersi alla prova.

Se dovessi fare un paragone, direi che l'esperienza della paternità assomiglia molto più alla staffetta, mentre trovo che la corsa campestre sia la raffigurazione dell'adolescenza, con la gioia di vivere e le delusioni, le tattiche sbagliate all'ultimo momento, le prove oltre le proprie risorse, sempre e soltanto la solitudine sia nella sconfitta che nella vittoria. Durante la staffetta invece, nella stessa squadra, nella medesima gara si trovano, nell'ordine: il padre, suo figlio e il figlio di quest'ultimo. Il primo padre, che ha già fatto la sua corsa, il secondo che la sta compiendo e il terzo che ancora deve svolgerla. Il testimone lo porta in mano chi è padre nel presente, ossia colui che attualmente corre e quella bacchetta che stringe è molto di più del simbolo di un avvicendamento. E' la storia vivente, la testimonianza diretta di un figlio che è a sua volta padre e che trasmette, al suo di figlio, qualcosa che è iniziato ancora prima di se stesso.
Mi rendo conto di quanto, pur non volendo, questo linguaggio vada assumendo sempre più dei connotati spirituali tipici della nostra cultura cattolica. Ma io non conosco altri termini per esprimere ciò che avviene in un uomo nel corso del suo passaggio da figlio a padre. E' qualcosa che, nella sua materialità, ha in sé molti contenuti spirituali, simbolici, culturali e, nondimeno, affettivi. Si tratta di un percorso che ho sintetizzato nella metafora della staffetta ma questo paragone rende giustizia solo in parte a questa piccola porzione della storia dell'umanità che si chiama 'paternità'. Sì, perché in realtà la storia va riletta per essere capita, mentre una gara di atletica si esaurisce nel momento in cui i partecipanti tagliano il traguardo. Invece, a volte è molto bello anche rivedere in televisione la stessa competizione. Osservare al rallentatore chi stava ai nastri di partenza, immedesimarsi, fingere di non sapere come va a finire la corsa e, soprattutto, provare a immaginare il futuro.

Commenti

  1. Bella, molto bella la metafora della staffetta e anche azzeccata se pensi che alcuni schemi comportamentali tendono davvero ad essere ripetuti di padre in figlio e così via; tuttavia mi chiedo cosa accade quando il primo, il secondo o anche il quarto staffettista non danno il meglio di sè, perchè sono fuori forma o non si sono allenati abbastanza. La tua metafora non rende giustizia ai quei padri che vanno oltre i limiti dei loro genitori, che corrono con un altro stile che, a limite, si fanno cadere il testimone di mano e invece di affrettarsi a recuperare, si fermano, decidono di darsi alla corsa campestre e, magari, vincono.
    Però quando si sono avuti buoni genitori, allora si, che bello ricevere il testimone.
    ciao.

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  2. Nella staffetta ciò che alla fine conta è la media delle singole prestazioni dei compagni di squadra. C'è chi è più veloce e chi meno, ma vale sempre e soltanto il risultato finale del 'collettivo', non dei singoli membri del team.
    Parlando dei genitori, io stesso, in quanto tale, mi porto dentro i miei genitori e guardo spesso mio figlio come se fosse me stesso alla mia età.
    E senza fare necessariamente tutto questo ragionamento 'teorico', io riconosco mio figlio semplicemente perché sono stato un figlio e mi riconosco come padre perché ne ho avuto uno.
    Posso essere migliore o peggiore dei miei genitori, ma ciò non conta perché che mi porto dentro anche loro: la loro eredità e la loro impronta.

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