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Non siamo ciò che diciamo

Forniscono risposte tempestive alle domande che ti fai in un momento preciso della tua esistenza: per me è questo l'aspetto miracoloso dei libri. E' come se sapessero per tempo che problema ti affligge, lo prendessero in esame e a volte proponessero una soluzione. E' straordinario quanto sia stato ricorrente, per quel che mi riguarda, 'l'intervento' dei libri nella diverse situazioni della vita in cui mi sono imbattuto mentalmente. 
Quando si legge e si segue una storia, il coinvolgimento del lettore a livello inconscio è talmente profondo da far sì che diventino sue le problematiche, universali, che i personaggi del racconto incontrano. Il rapporto fra chi legge e il testo è così intenso da assomigliare a una seduta psicanalitica nella quale emergono, nei diversi raffronti con le righe, parallelismi con la propria vita che finiscono per diventare immedesimazioni, nella migliore delle ipotesi, se non addirittura scambi temporanei di identità: ciò che leggiamo è spesso la spiegazione estesa della nostra stessa esistenza.
Allora, succede che ti fai delle domande, che nascono grazie a chissà quale intreccio recondito. Interrogativi perfino personali, intimi, ovvero che hanno a che vedere con il proprio io. E capita anche di trovare delle risposte.
Eccone una, che ha a che fare con quanto detto nei giorni scorsi riguardo alle parole, insufficienti, per esprimere i sentimenti. Si tratta di un nuovo tassello, da aggiungere ai pochi che ho già inserito per definire l'amore che si dice e che, in quanto mera forma verbale, non può bastare e non può essere pienamente conforme al pensiero. Nel romanzo di José Saramago L'anno della morte di Ricardo Reis, il protagonista ha una relazione con una cameriera, Lidia, la quale avverte l'interesse che il suo amante ha per un'altra donna, Marcenda, e sa anche che i due, di recente, avrebbero potuto incontrarsi: "Non ho poi incontrato il dottor Sampaio e la figlia - dice, senza che la cameriera glie lo abbia domandato, Ricardo Reis a Lidia -, niente di strano, con una folla del genere, la frase è stata lanciata distrattamente, è rimasta per aria, in attesa che le prestassero attenzione, macché, poteva essere verità, poteva essere bugia, ecco qual è l'insufficienza delle parole, o, al contrario, la loro condanna per sistematica doppiezza, una parola mente, con la stessa parola si dice la verità, non siamo ciò che diciamo, siamo il credito che ci danno, quale sia il credito che Lidia dà a Ricardo Reis non si sa, perché si è limitata a domandare..." (Feltrinelli 2010, p.284), a fare altre domande, girando attorno a ciò che veramente vorrebbe sapere, ossia se Ricardo Reis ami la signorina Marcenda.
Ecco, alla fine quel che conta e che avrà veramente importanza è ciò a cui Lidia vorrà credere riguardo ai sentimenti di Ricardo Reis. Non contano le parole perché non siamo le nostre parole, sia che mentiamo, più o meno volontariamente, e sia che diciamo la verità. In ogni caso, è proprio il dire, rispetto al sentire e al pensare, a essere insufficiente e inappropriato. 
Conta solamente il credito che ci danno e che diamo e questo non si fonda sulle parole dette e sulle frasi ascoltate, ma su quel che sentiamo e che proviamo dentro.
Tutto ciò è maggiormente evidente nel rapporto fra adulti e bambini, con i primi di solito più dotati linguisticamente dei secondi e con questi ultimi che ripongono un credito enorme nelle parole dei più grandi. I genitori hanno un vantaggio senza pari sui figli, perché godono di una fiducia assoluta che va oltre le limitazioni delle parole. Ma portano anche il doppio peso della responsabilità di non tradire questa fiducia e della coscienza del limite umano del dire, che a volte coincide con l'affanno quotidiano del far capire.

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