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Caro Steve Jobs, ma come si fa a essere affamati e folli?


Caro Steve Jobs - permettimi anzitutto di darti del tu e di usare il confidenziale "caro" anche se di persona non ti ho mai incontrato, ma a me, come ad altre milioni di persone, sembra di conoscerti da una vita, almeno da quando, correva l'anno 1997, comprai il mio primo Mac per scrivere la mia tesi di laurea. 
Caro Steve Jobs - dicevo - mi auguro che tu possa ascoltarmi dal posto in cui ti trovi ora - e spero proprio che questo non sia la nuvola iCloud e né, per farlo e sempre che la cosa ti interessi, che tu ti avvalga di un iPhone o di un iPod o di un iPad o di un qualsiasi altro marchingegno da te inventato. 
Caro Steve, nel 2005 anch'io, come tanti altri, lessi il discorso fatto da te all'università di Stanford. E ovviamente, in quell'occasione, non potei non condividere il tuo pensiero. Come non essere d'accordo, infatti con ciò che dicesti allora, ovvero che "il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario". 
L'altro giorno, caro Steve, ho dedicato, su questo mio blog, le tue parole di Stanford ai miei figli. Ma oggi mi chiedo come i giovani possano diventare, nel mondo in cui viviamo, "affamati e folli", come tu augurasti di essere ai laureandi dell'università americana. Ti spiego meglio la mia perplessità: io credo che tutti abbiano fame quando non mangiano da tanto tempo e so anche che ciò a cui ti riferivi con la parola "fame" era la voglia di ingoiare ciò che più si desidera e, soprattutto, la fame di conoscenza. Ma così come spesso non si può che mangiare ciò che si ha in tavola, allo stesso modo, il più delle volte, non si può che conoscere soltanto il mondo che abbiamo attorno. Ciò che voglio dire è che il posto dove nasciamo condiziona non solo il nostro appetito, ma anche la scelta del cibo che ingoieremo. E una cosa è nascere in Italia, un'altra è nascere in Africa e un'altra ancora è nascere negli Stati Uniti. Dicendo questo, però, non cerco né attenuanti e né giustificazioni perché - lo so bene - si può sempre scegliere di vivere altrove e di farsi condizionare dalla realtà che si vuole. Ma, mi permetterai di obiettare, a volte può essere complicato lasciare tutto e ricominciare da zero, in un posto che non si conosce, senza alcuna garanzia scritta di successo. Quante sono le persone che, oltre a te, ce l'hanno fatta? 
Tu mi dirai, caro Steve, che il vero successo non è quello economico, ma il realizzare ciò che si ha dentro ovvero riuscire a essere se stessi. E io sono d'accordo con te, soprattutto se teniamo presente che la vita è breve e le occasioni che abbiamo poche. Dovremmo sempre chiederci - come consigli di fare - "se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?" - ed è una bella domanda da porci per vivere intensamente la vita. Ma la vita non si vive soltanto alla giornata, ma è fatta di programmi, anche a lunga scadenza, di obblighi, di rate, di bollette, di spesa da fare, di relazioni da mantenere, di rapporti con persone che si amano e con le quali ci siamo impegnati, di responsabilità. E' difficile strappare di punto in bianco ogni contratto, ogni obbligo per essere improvvisamente liberi. 
Ma ora vorrei parlare dell'essere "folli". Credo che con questo augurio, caro Steve, tu intendessi, più o meno come faceva Platone quando nel Fedro parlava di 'follia divina', l'esser posseduti da una forza naturale o divina incontrollabile e capace di condizionare volontà e desiderio. Ecco, a proposito di questo, io penso che proprio i bambini nascano con questa qualità, con una voglia senza pari di conoscere e di creare. Ma successivamente il mondo, la società, lo status quo, contrastano ogni emersione del nuovo, della novità rivoluzionaria e della messa un discussione che li spodesterebbe dalla loro posizione di vantaggio. E lo fanno principalmente attraverso una cosa chiamata educazione, letteralmente e-ducando i bambini ovvero conducendoli fuori da sé, lontano dalla loro spontaneità naturale, omologandoli a un popolo di subordinati. 
L'auspicio che tu rivolgesti ai ragazzi di Stanford era probabilmente quello di recuperare quella follia e quella fame infantili ormai perdute. L'augurio che invece io ho voluto dedicare, con le tue stesse parole ai miei figli, è quello di non disperdere mai il loro appetito e la loro follia innati.

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