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La torpedine


Alcuni fatti assumono la portata che meritano solamente anni dopo che sono avvenuti. Molti di essi, invece, appena pochi minuti più tardi. In entrambi i casi, ci rendiamo conto delle conseguenze quando ormai non si può tornare indietro. Se il proiettile di una pistola colpirà un uomo nell'istante in cui questi si troverà sulla sua traiettoria, non ha più senso pensare di sabotare l'arma oppure di spingere il bersaglio un centimetro più in là, dove si salverebbe, quando il colpo è partito. Non c'è molta distinzione fra il prima e il dopo, e la morte è già sopraggiunta quando il grilletto ha fatto clic, non quando il piombo ha trafitto il petto.   
La torpedine è un pesce che emette delle scariche elettriche per immobilizzare le prede. Non depone uova, ma è vivipara. Avrò avuto sedici anni l'estate in cui ne pescai una col fucile da sub di mio padre. La portai a riva ormai morta e, mentre l'adagiavo sul bagnasciuga, notai che dalla cloaca fuoriusciva un liquido rosaceo. Ormai la scossa che trasmetteva era debolissima e senza pensarci le premetti il ventre, là dove era presente un leggero rigonfiamento. Il primo pesciolino uscì senza difficoltà e così continuai a fare pressione fino a che la mamma non espulse una trentina di figlioletti che si agitavano sulla rena bagnata e che, se li toccavo, già trasmettevano un po' di elettricità. 
Li deposi in un secchiello dopo averlo riempito con acqua di mare, mi rimisi la maschera e portai gli animaletti, tutti insieme, il più a largo che potei nel tentativo di salvare loro la vita. Quindi li versai in mare e rimasi per un poco a osservarne il comportamento: avevano un istinto straordinario che li conduceva sul fondale e che gli ordinava di sbattere le pinne in modo da ricoprirsi immediatamente di sabbia e nascondersi dai predatori. Pensai che ormai erano al sicuro e così li salutai, affrettandomi a tornare a riva per raccontare a mio padre l'avventura che mi era capitata.
Mentre spiegavo a papà ciò che mi era accaduto, non riuscii a nascondere il mio dispiacere per aver ucciso una madre e, anche se comprendevo bene che non avrei mai potuto sapere che nel ventre celava i suoi figli, non riuscivo ad accettare una simile giustificazione. Ad un certo punto mio padre mi disse una frase che mi colpì profondamente ossia che se non avessi ucciso io quel pesce, lo avrebbe fatto qualcun altro, un pescatore oppure un pesce più grande: "E' una legge di natura - aggiunse -: sono pochi gli animali che raggiungono la vecchiaia, mentre quasi tutti servono da nutrimento per altri". 
Un ingiustizia, pensai tuttavia, credere di uccidere un animale per mangiarlo e invece, di fatto, sterminarne la famiglia. Azioni che vanno ben oltre le intenzioni: mi sentivo come il ladro senza coscienza che entra in una casa da svaligiare e, insieme agli oggetti di valore, ruba anche i ricordi. Non potevo accettare il pragmatismo del mio genitore e la sua mi appariva come una spiegazione opportunistica e qualunquistica. Io non mi sentivo di appartenere alla categoria dei rapaci, non depredavo le risorse, non avrei mai potuto abbuffarmi se il mio stomaco era già pieno. Parole, le mie, molto più condivisibili oggi - in una società in cui ci diciamo tutti ecologisti - che allora, quando le pensai ma non riuscii a dirle.
Io, mio padre, i miei figli e la società: a distanza di venticinque anni da quel giorno d'estate, resto dell'idea che avevo allora, ossia non sfrutterei un'occasione che mi si presentasse ma nella quale non dovessi credere o avere interesse, soprattutto non lo farei per il timore che qualcuno potrebbe beneficiarne al mio posto. Non è detto, infatti, che il vantaggio di un altro sia necessariamente uno svantaggio per sé e non mi interessa competere se la posta in gioco non mi attira, che se la prenda chi ci tiene di più.
Ai miei figli, ovviamente, farei lo stesso discorso, ossia di cercare di avere quel che desiderano veramente e non ciò di cui non hanno bisogno. Non combattano per il superfluo, ché non ne vale la pena, e lascino invece ad altri quel che a loro non interessa. Però, guardando la società sedicente ecologista in cui viviamo e soprattutto il mondo del lavoro, debbo ammettere che aveva ragione mio padre a dire che tutti cercano di sfruttare le risorse, siano esse naturali o, più diffusamente, umane. Ovunque è una gara ad arricchirsi e a chi prende di più e anche una corsa a riempirsi la pancia con meriti più presunti che veri e con gagliardetti e titoli che non servono a niente, se non ad abbellire la faccia e a renderla più presentabile.    

Commenti

  1. mi è capitato più di una volta di provare quello che hai provato tu.
    Da piccola accompagnavo anch'io mio papà a pescare. Avevo 7 o 8 anni la prima volta in cui provai sgomento vedendo uno dei pesci che mio padre aveva pescato che moriva a poco a poco accanto a noi. Piano piano smetteva di muoversi. Lo guardavo e mi veniva da piangere. E mi chiedevo: perché? "Ma poi lo mangeremo. Se fosse stato un pesce non commestibile l'avrei ributtato in mare. Se non ero io era un altro." E così via. Eppure quella spiegazione non mi bastava. Il buco nello stomaco mi faceva male lo stesso.
    L'ultimo paragrafo di questo post è davvero interessante.

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