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La parola solitudine


C'è una cosa antica, che ti sta accanto fin dal primo giorno in cui sei venuto al mondo, e che conosci bene anche se ancora non ne sai il nome. Si chiama solitudine, pensa che contraddizione avere lei come compagna di viaggio di una vita.
Ti ci sei imbattuto col primo vagito, quando per la prima volta hai avvertito improvvisamente freddo e, senza saperne il motivo, hai urlato, cieco di dolore. Finché è arrivato un abbraccio a consolarti, ad accontentarti lo stesso, se per caso non proprio di questo avvertivi il bisogno. Ti sei calmato, e ciò è stato sufficiente a tranquillizzare sia te che chi ti stava di fronte, con buona pace di tutti.
C'è questa cosa antica che si chiama solitudine e che è la tua condizione di sempre, la tua parte nella tua storia di uomo, il tuo piccolo momento nella storia senza tempo dell'umanità. Ti avverto subito: solitudine non è altro che assenza di comunicazione, che non vuol dire semplicemente che uno parla e l'altro non ascolta, ma che uno parla e non viene capito.
Mettetevi ancora una volta nei panni di un bambino: non vi accorgete di quanto siano soffocate le sue grida e quanto poco siamo in grado di comprenderle, noi adulti? A volte, quando urlare diventa inutile, ci chiudiamo in un mutismo che non ha differenze con la sordità degli altri. Quel silenzio improvviso non è altro che l'ultimo, disperato grido, l'urlo diventato gelo. Esistono silenzi che sono grida di dolore e urla assordanti che nessuno ode: entrambi fanno parte integrante della solitudine con la quale ci presentiamo all'indifferenza di questo mondo.
Esiste un'espressione che usiamo spesso ed è "solo come un cane". Ebbene, adesso ho capito perché la citiamo tanto spesso: per due motivi, che hanno a che fare sia con il cane che con l'uomo. Il cane ci parla e in cambio ottiene parole che non corrispondono alle sue. Risposte a domande mai fatte o indicazioni che non ha mai avuto bisogno di ricevere. Soluzioni per altri problemi, non certo i suoi. Questa è la solitudine canina: un dialogo impari, a senso unico. Un continuo offrire agli altri e, a volte, neanche una carezza in cambio.
L'uomo che è solo come un cane, invece, è quello che, proprio come il suo migliore amico - è tanto vero che lo è, quanto non è vero il contrario, dato che manca assolutamente di reciprocità questo rapporto di amicizia - ha smesso di parlare perché non trova corrispondenze nel mondo. Questo uomo non è più capace di dialogare neanche con se stesso, non ha potuto scegliere la propria solitudine: altri, prima di lui, hanno pensato di farlo al suo posto, rivolgendo altrove lo sguardo ogni qual volta egli girava gli occhi verso di loro.
Non è altro che una questione di dialoghi mancanti, o mancanti, a seconda delle situazioni, la solitudine. Così come di orizzonti perduti - che assurdità sottolineare anche quest'ultimo aspetto, ché la linea in fondo al nostro sguardo, che fonde cielo e mare in un unico abbraccio e che da noi si allontana ogni volta che cerchiamo di raggiungerla, mai l'abbiamo stretta fra le mani. Sia essa un paesaggio, un uomo oppure, per il bambino, un genitore, gridare o restarsene muti non ci avvicina in alcun modo agli altri.
Sono discorsi antichi, vecchi quanto l'uomo, che risalgono a tempi nei quali forse anche i cani parlavano, prima che rinunciassero del tutto a farlo.

Una nota sulla foto di sopra: è Fernando Pessoa. Pensando a un'immagine che potesse illustrare la solitudine non mi è venuto in mente altro che l'autore del Libro dell'Inquietudine, in particolare il suo eteronimo Bernardo Soares, il suo sguardo pieno di tristezza che si affacciava dalla finestra della sua casa di Lisbona da cui osservava il mondo che, passando di fretta per la strada di sotto, non lo ricambiava nemmeno con uno sguardo.
"Penso che a volte non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. E se lo scrivo, mi sembra l'eternità".
"Dal mio quarto piano sull'infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull'inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l'accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi e paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili".
Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, Feltrinelli 2005, p. 25.

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