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Quattro spicchi di pomodoro


Quattro spicchi di pomodoro sono il ricordo più bello che conservo di mio nonno. Il frutto era tagliato in un piatto bianco, su una tovaglia dai fiori sbiaditi e distesa soltanto a metà: tutto ciò che restava, accanto a una fetta di pane, di una cena solitaria. Era condito con un pizzico di sale, un poco di olio di oliva, un pezzetto di aglio e una spolverata di origano, di quello che soltanto al sud si trova ancora in mazzetti e dal profumo talmente intenso che, ogni volta che lo usavamo, mia nonna ci avvertiva: "poco, ch'ammarìa" ("mettetene poco, altrimenti il cibo diventa amaro"). 
Mia nonna mescolava con le mani l'insalata di pomodori, appena prima di mettere l'olio, e quel semplice piatto non era soltanto un contorno ovvero qualcosa che si può fare anche a meno di mangiare: ogni ingrediente aggiunto era un'attesa, significava un'intenzione, rappresentava una cura con la quale accudire e far stare bene gli altri.
Sono certo che fosse l'estate del 1981: una sera tornai a casa dopo una passeggiata nel paese dove trascorrevo le vacanze e trovai sulla tavola i quattro spicchi di pomodoro lasciati da mio nonno. Non avevo ancora undici anni e non riuscii a resistere, prima di andare a dormire, alla tentazione di mangiarli, di immergere il pane nel loro succo saporito. Le fette erano carnose, il rosso tendeva al bordeaux e il sapore era acre e zuccherino allo stesso tempo, il sale sulla buccia bruciava la lingua ma il sugo stemperava in un fluido dolce questa sensazione iniziale. 
Quel pomodoro abbandonato in un piatto trent'anni fa divenne il termine di paragone con tutti gli altri pomodori che avrei mangiato in futuro. Ed è diventato anche il pretesto ricorrente per pensare a mio nonno, per ricordarne gli aspetti più belli, per farli prevalere sugli altri, quelli più negativi, che non possono scomparire semplicemente quando lo vogliamo, soltanto perché così ci fa piacere. Siamo tutti fatti di zucchero e di sale, di bene e di male. Sta a noi evidenziare una parte piuttosto che l'altra, ricordare una qualità buona invece di una cattiva. Avere, in definitiva, una sensazione positiva delle persone che abbiamo conosciuto.
Mio nonno aveva gli occhi colore del ghiaccio quando riflette il cielo, ma il suo animo era tutt'altro che trasparente e forse era addirittura nero come il fondo di un pozzo. Non so se uno specchio possa riflettere il buio: oltre l'azzurro dello sguardo mio nonno celava una tristezza senza pari, invisibile attraverso qualsiasi trasparenza. Aveva perso l'avambraccio destro in guerra, spesso si ubriacava e diventava violento, picchiava la moglie e i figli, quando erano ragazzi, con una predilezione particolare per mio padre, il più ribelle della famiglia. Era, questo, il modo con cui dimostrava a se stesso di amarli, non avendo probabilmente altri mezzi per farlo: si portava dietro un fardello di frustrazioni, forse si sentiva inutile senza quella mano tagliata via dalla fame, da una mina che aveva l'aspetto innocuo di una scatoletta di tonno.
Aveva fatto sei figli con mia nonna, qualcuno di questi fra una licenza dalla guerra e l'altra. Una volta scese da un treno in corsa per raggiungere la famiglia di cui sentiva nostalgia. Un'altra inseguì mio padre per casa con una spada, deciso a fargli la pelle, ma lui si salvò perché ebbe la prontezza e il coraggio di lanciarsi da un balcone che dava, prima ancora che sulla strada, su un muretto abbastanza alto e che costeggiava una scalinata. Cose che di mio nonno mi hanno raccontato. Contraddizioni, amore e furia cieca.
A questa triste scena invece ho assistito di persona: una sera, non so per quale futile motivo, ce l'aveva con mia nonna e con una mia zia e già le aveva colpite con qualche schiaffo dopo il primo crescendo di insulti, quando vidi il mio cugino più grande prendere senza preavviso la rincorsa e atterrarlo con una spallata. Mio nonno restò steso sul pavimento, a pronunciare parole sconnesse, mentre mia nonna, sua figlia, tre miei cugini, io e mio fratello uscimmo di casa per andare a passare, come degli sfollati, la notte da una nostra parente. Il giorno dopo tornammo da mio nonno come se tutto quel che era capitato appena dodici ore prima fosse già un lontano ricordo o, addirittura, non fosse mai accaduto. Gli sorrisi pieno di imbarazzo, quando lo vidi, appena mi accorsi, ancora una volta, di certe contraddizioni. Quando assaporai il dolce assieme al salato.
Mio nonno raccontava barzellette volgari, che da bambino non potevo capire ma che mi facevano ridere lo stesso, soltanto perché lui, con i suoi baffi bianchi ingialliti dalla nicotina delle Nazionali, mi stava simpatico. Sapeva trovare la rima con tutte le parole, vinceva sempre con chi si cimentava con lui nelle sfide di questo tipo. "Soltanto alla parola 'fegato' - diceva - non è possibile trovare la rima".

Commenti

  1. Cristiano queste sono tra le cose più belle che hai scritto da quando ti leggo; ho capito ogni parola, ogni sfumatura emotiva. Però la Miller su una cosa sbagliava: questo lavoro non finisce mai, basta uno sguardo un po troppo obliquo o appunto, quattro spicchi di pomodoro, per ricominciare. Ma ogni volta è più semplice. E si cambia prospettiva, piano piano, perché si ha la lucidità di pensare agli aspetti meno dolorosi ma pur sempre incongrui. C'hai mai pensato a come gestire il cattivo nel buono? Chi, ma soprattutto perché, continuava ad aprire porte, a sorridere più o meno convintamente e a distribuire il pane?
    Speriamo di no! Perché, se per la seconda volta, lanci una freccia nel cielo e quella ricade dritta dritta nel mio cuore, rischio di rimanerci!
    Grazie davvero e a presto.

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