Il più grande insegna l'inglese al più piccolo. Oggigiorno, infatti, è necessario conoscere almeno un'altra lingua, oltre a quella madre. Anche se quest'ultima la si parla ancora a stento, può succedere che l'idioma straniero venga pronunciato meglio di quello di provenienza.
"Ripeti", dice Doddoko a Deddé (ultimamente si fa chiamare così, il secondogenito, dal fratello maggiore): "Mai...neim...is...Deddé". E il duenne rifà, alla perfezione: "Mai...neim...is...Deddé".
Con i tempi che corrono, nei tre possibili sensi di questa frase, ossia di modernità, velocità e superficialità, poco importa che il piccolo sappia cosa stia dicendo: conta l'effetto-sorpresa che fa, su chi lo ascolta, sentire delle parole pronunciate in una lingua straniera.
E, di conseguenza, contano e pesano poco tutte le frasi non contate e soppesate, quelle espresse soltanto mentalmente (e sono la stragrande maggioranza), perché non si possiede ancora la capacità di dirle.
C'è una quantità inaudita di parole che restano nella testa o che si fermano fra i denti, senza uscire dalla bocca. Succede soprattutto ai bambini, ma anche agli adulti, di voler dire ma di non sapere come.
Ai primi il tempo di imparare a farlo. A noi la capacità di apprendere come dare voce anche al silenzio.
Caro Cristiano le parole sono sopravvalutate. A volersi far capire ci sono tanti modi per esprimersi, come Deddé ben sa. Ma sta tutto appunto nel voler capire e farsi capire e comunque, al limite, come si dice qui http://www.youtube.com/watch?v=csUmCSBhzKU (rigorosamente senza parole) "il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi". Ma quali?
RispondiEliminaBuona notte (speriamo: siamo in allerta terremoto!).