"Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. «Quando ti vien voglia di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu». Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo".
L'incipit del Grande Gatsby mi è rimasto in testa da quando lessi, una ventina di anni fa, il romanzo di Fitzgerald. Lo stesso messaggio, di non criticare il prossimo, lo giro ai miei figli non solo perché gli altri possono essere più sfortunati di loro, ma soprattutto perché considero una cosa orrenda quella di parlare male delle persone a loro insaputa.
Eppure, sparlare degli altri è un atteggiamento diffusissimo: forse è il vero sport nazionale, un'attività a cui personalmente, sembrerà incredibile, non ho mai preso parte. Prima di incominciare a lavorare, a scuola e poi all'università, non avevo mai fatto comunella con i miei compagni, ma avevo avuto sempre rapporti di amicizia o di conoscenza nei quali i rari commenti riguardo gli altri o erano battute goliardiche, senza peso e che lasciavano il tempo che trovavano, o erano descrizioni il più possibile franche e attendibili, fatte spesso in presenza dei diretti interessati. Da parte mia, non ci sono mai stati secondi fini nel parlare del prossimo, né il desiderio di denigrare qualcuno per poter mettere me stesso in risalto. In generale, non sono mai stato un arrivista. In particolare, non lo sono mai stato ai danni di qualcun altro.
Quando ho iniziato a lavorare, invece, ho incontrato spesso gente sospettosa che si riuniva per parlare sottovoce e che spesso voleva coinvolgermi anche con domande spudoratamente dirette, tipo: "Di quello che pensi? Non ti sembra un cretino?" o con affermazioni, come: "Quello è un raccomandato" e "Quello è un lecchino".
Ho sempre guardato con diffidenza chi mi faceva certe confidenze non richieste e ho sempre deluso le aspettative di chi voleva sapere da me notizie personali di qualcun altro. Col passare degli anni sto diventando sempre più diretto, dico ciò che penso senza farmi problemi, anche a costo di rendermi antipatico.
Ho imparato anche a dire di no con maggiore facilità rispetto al passato. A non credere, per obbedienza o per cortesia, nelle cose che mi raccontano. Sono questi i consigli che rivolgo ai miei figli: di non parlare male degli altri in loro assenza e di fare sempre ciò in cui credono per davvero. Non è troppo presto per dirglielo, anche se queste sono cose che si apprendono col tempo.
L'incipit del Grande Gatsby mi è rimasto in testa da quando lessi, una ventina di anni fa, il romanzo di Fitzgerald. Lo stesso messaggio, di non criticare il prossimo, lo giro ai miei figli non solo perché gli altri possono essere più sfortunati di loro, ma soprattutto perché considero una cosa orrenda quella di parlare male delle persone a loro insaputa.
Eppure, sparlare degli altri è un atteggiamento diffusissimo: forse è il vero sport nazionale, un'attività a cui personalmente, sembrerà incredibile, non ho mai preso parte. Prima di incominciare a lavorare, a scuola e poi all'università, non avevo mai fatto comunella con i miei compagni, ma avevo avuto sempre rapporti di amicizia o di conoscenza nei quali i rari commenti riguardo gli altri o erano battute goliardiche, senza peso e che lasciavano il tempo che trovavano, o erano descrizioni il più possibile franche e attendibili, fatte spesso in presenza dei diretti interessati. Da parte mia, non ci sono mai stati secondi fini nel parlare del prossimo, né il desiderio di denigrare qualcuno per poter mettere me stesso in risalto. In generale, non sono mai stato un arrivista. In particolare, non lo sono mai stato ai danni di qualcun altro.
Quando ho iniziato a lavorare, invece, ho incontrato spesso gente sospettosa che si riuniva per parlare sottovoce e che spesso voleva coinvolgermi anche con domande spudoratamente dirette, tipo: "Di quello che pensi? Non ti sembra un cretino?" o con affermazioni, come: "Quello è un raccomandato" e "Quello è un lecchino".
Ho sempre guardato con diffidenza chi mi faceva certe confidenze non richieste e ho sempre deluso le aspettative di chi voleva sapere da me notizie personali di qualcun altro. Col passare degli anni sto diventando sempre più diretto, dico ciò che penso senza farmi problemi, anche a costo di rendermi antipatico.
Ho imparato anche a dire di no con maggiore facilità rispetto al passato. A non credere, per obbedienza o per cortesia, nelle cose che mi raccontano. Sono questi i consigli che rivolgo ai miei figli: di non parlare male degli altri in loro assenza e di fare sempre ciò in cui credono per davvero. Non è troppo presto per dirglielo, anche se queste sono cose che si apprendono col tempo.
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