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La casa bianca


Mi è capitato qualche giorno fa di andare in una casa bianca (a Roma, non a Washington). E' l'appartamento di un amico di Dodokko che vive assieme alla mamma e a una cameriera-baby sitter. La madre del piccolo è separata da qualche anno, è una modaiola incallita, griffata da capo a piedi e che griffa anche il figlio. I loghi che ostenta, così come il telefonino all'ultimo grido, le conferiscono la sicurezza di cui ha bisogno nei rapporti con gli altri. Niente di male, in questo: preferisco una persona di tale specie a una che, per le stesse ragioni, si rovina la salute con le sigarette o gli psicofarmaci. E poi, chi non ha bisogno di sentirsi certo con gli altri e al sicuro in casa propria? 
Anche per questo motivo l'appartamento è prevalentemente bianco, così come suggerito dagli ultimi numeri delle riviste di arredamento, ma il bianco che impera negli abiti, nelle automobili e nei cellulari, a me non piace affatto. Anche se il bianco, ce lo hanno insegnato a scuola, è l'insieme dei colori dell'arcobaleno, non amo le tele vuote, ma quelle colorate nelle quali il pittore sceglie almeno una tonalità e con questa caratterizza il suo quadro. Che poi venga brutto non fa niente, l'importante è tentare di fare qualcosa che esprima il sentire dell'autore, qualcosa di comunicativo. Nel bianco non esiste nulla di questo, non c'è personalità, né carattere, né idea.
Tornando alla casa bianca, non mi piace entrare in un appartamento e sentirmi come in un negozio d'arredamento, dove tutto è perfettamente piegato e in ordine ma dove non c'è traccia di vita. In questa casa, perfino nella stanza del bambino, tutti i giocattoli sono al loro posto, e il piccolo neanche ricorda tutti quelli che ha, se funzionano ancora o se le pile sono soltanto scariche, e si stupisce quando trova una macchina telecomandata che ancora cammina. 
E le foto appese sono quelle plastiche, posate e con la luce giusta, dove mamma e figlio sono rappresentati secondo il canone attuale dell'amor filiale: anche qui la moda del bianco, laddove il sentimento me lo immagino sempre come qualcosa di forte, struggente, violento, drammatico e mai neutro, e la sua rappresentazione fotografica quella di un momento spontaneo: un bacio improvviso, una risata irrefrenabile, un abbraccio dove i muscoli e le dita delle mani sono contratti e affondano nella pelle.
Nella stanza del bambino non c'è una foto visibile di suo padre, se non quella, l'unica, minuscola, su una mensola alta, in fondo a tutte le altre. In questa stanza bianca la foto del padre è l'unico accenno di colore, un tentativo minimo di forza o di carattere, una mezza vittoria dato che il colore è sbiadito, tendente al bianco. Una prova di coraggio o una nota stonata, dipende dal punto di vista dell'osservatore, di chi ha provato a dire: "Vediamo se per una volta  so sentirmi sicura, anche senza le mie certezze di sempre".  
E il bambino, in questo quadro, è quel colore ancora nel tubetto in attesa di sporcare la tela. Immagino di rosso, perché il rosso è un colore magnifico, caldo e fluido come il sangue. 
E' il colore del sentimento e della passione, della gioia e del dolore. Forte come l'amore e intenso come la vita.

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