Abbiamo deciso di andare a Ravello per visitare il paese e per vedere Villa Cimbrone. Le previsioni meteorologiche non sono affatto buone, ma non piove ancora e così ci mettiamo in cammino attraverso la breve strada che da Atrani sale fino ad arrivare alla Terrazza dell’infinito. Un susseguirsi di tornanti, l’andatura della macchina è lenta e spesso dobbiamo fermarci per dare la precedenza alle vetture che procedono nel senso di marcia opposto al nostro, su stradine strettissime che si arrampicano in mezzo a terrazzamenti coltivati a limoni.
Fazzoletti di terra che terminano con muri in pietra e che si affacciano sul mare, al di sopra di altri terreni, a disegnare piramidi maya di terriccio e frutti, bruni e gialli, in un alternarsi continuo di piani ora verticali e ora orizzontali. I limoni si protendono verso l’azzurro da sponde rocciose che ne evitano il naufragio. Qui i muri non servono a dividere i terreni e a delimitare le proprietà, e nemmeno a portare, sopra di sé, altre strutture, ma a trattenere gli alberi che potrebbero scivolare a valle assieme alla stessa terra alla quale sono radicati.
È primavera inoltrata ma i limoni portano tuttora il ricordo della stagione che si sono lasciati alle spalle. Gli alberi hanno ancora sulle chiome il telo nero con il quale i contadini li coprono per farli stare al caldo d’inverno. Con quel velo addosso, i limoni sono come le vecchie vedove del sud, che portano il lutto stretto fino alla fine dei loro giorni. E che hanno uno sguardo senza vita e dimostrano spesso più anni di quelli che effettivamente hanno. Sono lumie spente questi agrumi col velo scuro e sono gli occhi senza luce delle donne anziane di questi paesi.
Arriviamo a Ravello e lasciamo la macchina nel parcheggio dell’Auditorium. Percorriamo a piedi i vicoli che portano a Villa Cimbrone e, dopo una camminata con i piedi sulle stradine lastricate di ciottoli e lo sguardo sulla campagna e sui muri ricoperti di rampicanti, entriamo nella parco.
È un trionfo di glicini, corbezzoli e iris il viale della villa che conduce alla Terrazza dell’infinito. I bambini saltellano da un muretto all’altro e quando arriviamo ha già iniziato a piovere. Il figlio grande mi domanda perché si chiama ‘dell’infinito'. Gli dico che lo capirà quando saremo lì, pensando allo spettacolo che avremo davanti agli occhi una volta arrivati alla nostra destinazione.
Invece, una nebbia fitta avvolge lo sguardo fino al mare, che non riusciamo neanche a intravedere. Banchi di vapore salgono dall’acqua fino a oltrepassarci e a disperdersi sopra le nostre teste. Stiamo galleggiando in un latte dove si confondono insieme il mare, la terra e il cielo. Perfino i busti di marmo, che ornano la ringhiera, a tratti scompaiono, anche se sono soltanto a pochi metri da noi.
Non c’è dimostrazione migliore di quella offerta oggi dalla natura per descrivere che cosa sia veramente l’infinito, che non è qualcosa che non finisce mai, come credevo potesse essere l’ampiezza del nostro sguardo di fronte al panorama che avremmo ammirato dalla terrazza. Ma qualcosa che nemmeno ha mai avuto inizio: un’assenza di sguardi, di punti di osservazione e di oggetti da ammirare. Una fusione delle dimensioni e delle assi, dei piani verticali e orizzontali.
Ancora una volta le lumie ricoperte dai veli: il disincanto dello sguardo delle vecchie vedove, del tutto incapace ormai di vedere davanti a se stesse e di aspettarsi un domani qualsiasi.
Decisamente stare coi tuoi bambini ti fa bene!
RispondiEliminaP.S: il lutto stretto, portato a vita, lo vedo sempre meno.