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Marea umana


Chi mi conosce lo sa: come sempre, ogni riferimento a persone esistite, ed esistenti, e a fatti realmente accaduti è del tutto e puramente casuale. Quella che segue, infatti, è la storia di una marea umana, una fra le tante che ci circondano e con le quali abbiamo a che fare tutti i giorni. Ma prima di parlarne e di spiegarne i movimenti, mi è d'obbligo fare, e scusatemi se approfitto della vostra pazienza, una lunga premessa.

Qualche tempo fa, un datore di lavoro ha avviato, senza che nessuno fra i suoi dipendenti potesse minimamente immaginarne la possibilità, una procedura di licenziamento per un quarto del personale della sua azienda. Nessun lavoratore avrebbe mai potuto aspettarsi, in quel momento preciso, un'iniziativa del genere, perché, quando questa è stata messa in atto, essi erano in procinto di organizzare un'opposizione al precedente taglio degli stipendi, poi ovviamente passato in secondo piano, vuoi mettere un decurtamento, seppur consistente, del salario con così tante persone che potrebbero perdere il posto di lavoro?!
Dunque, qualche mese fa, l'intenzione era di chiedere e di farsi dare qualcosa, i dipendenti  dovevano soltanto individuare il metodo per farlo (ma i loro tempi, si sa, a volte sono biblici), quando il loro datore di lavoro li ha colti alla sprovvista e, con un colpo a sorpresa, ha tolto loro un pezzetto ancora di quel che avevano: una certa 'sicurezza' contrattuale, alcune prerogative ritenute fino a quel momento incontestabili, soprattuto da parte di un'azienda economicamente sana.
Ancora prima dei licenziamenti annunciati e della cancellazione di parte del reddito, i dipendenti intendevano addirittura osare di chiedere gli 'arretrati' non pagati e i mezzi aziendali per lavorare, quali telefonini, computer, personale tecnico, ecc., insomma, tutti quegli strumenti che, alla luce dei fatti più recenti, hanno inevitabilmente assunto un sapore, se non fantascientifico, almeno anacronistico. Si mettano dunque l'anima in pace, i lavoratori, e rinuncino a queste cose che fanno parte di una concezione moderna di lavorare. Se lo vogliono, usino i propri mezzi oppure non lo facciano, decidano loro, in piena autonomia, se rinunciare per sempre anche al loro senso di responsabilità.

Alla procedura, i dipendenti si sono opposti sia sul piano pratico che su quello della comunicazione, in questo modo: dichiarando lo stato d'agitazione, facendo numerose assemblee 'permanenti', scioperando sette giorni sui dieci annunciati, creando quindi dei problemi all'azienda ma doverosamente amputando anche parte del proprio stipendio, producendo un tam-tam mediatico senza precedenti, costituendo una rete di 'solidarietà' da parte del mondo politico e istituzionale: in questo senso, sono arrivati gli attestati dei presidenti di Senato e Camera, la 'buena' benedizione del Papa, mancava soltanto un'enciclica, una dichiarazione del presidente della Repubblica, l'intervento della regina Elisabetta. 
Le motivazioni a monte di queste scelte sono state che la proprietà non aveva il diritto di licenziare, perché non ha dichiarato lo stato di crisi, ha anzi affermato che la sua è un'azienda sana, e ha appena ricevuto molti soldi pubblici, una quantità non inferiore a quella percepita l'anno precedente. Inoltre, per licenziare, l'azienda vorrebbe fosse applicata una legge che finora non è mai stata utilizzata nel comparto nel quale opera: un precedente che, se passasse, finirebbe per fare a pezzi il contratto che riguarda il settore in questione. 
E' vero, oggi un imprenditore può licenziare anche senza aver necessariamente dichiarato lo stato di crisi e soltanto perché si trova in presenza di un calo del fatturato e intravede all'orizzonte tempi cupi.  Non entro nel merito di ciò che dovrebbe fare un imprenditore di fronte a previsioni del genere, di certo non eliminare forza lavoro ma rinforzarla, non c'è occasione migliore per farlo, attraverso strumenti, formazione e tecnologie, sfruttando la sua particolare e ancora buona congiuntura, investendola e non mettendosela in banca...ma lasciamo perdere. 

Prima di concludere e dire dove voglio andare a parare, vorrei per un momento ancora concentrarmi sull'uso del linguaggio: "le parole sono importanti", diceva qualcuno, ma qui ne sono state spese molte e spesso a sproposito ovvero in maniera non appropriata. Si è parlato – così sono state chiamate – di proposte e di contro-proposte, nel momento nel quale i lavoratori sono stati attaccati e offesi, prima di tutto nella loro dignità. Quelle del datore di lavoro non sono state 'proposte'...di licenziamento, ma dichiarazioni, atti formali, che secondo lui non dovevano essere contestati.
Una proposta è tale se porta dei vantaggi a tutti quanti, a chi la fa e a chi la riceve. Un contro-proposta, invece, è quella che porta degli aggiustamenti alla proposta, altri vantaggi, in definitiva, per gli uni o per gli altri o, ancora meglio, se ciò è possibile, per tutte e due le parti. Qui, invece, i dipendenti sono stati bersagliati a bruciapelo da una pistola ancora fumante: di tanti presunti obiettivi iniziali, soltanto alcuni erano (sono stati) quelli da centrare. Questi sono stati centrati in pieno e si sono difesi parlando e scioperando; hanno assistito a casi di mancata solidarietà (non diciamo altro) da parte di altri colleghi; a casi di crumiraggio mascherato dalla necessità, evidentemente avvertita dalla sensibilità di chi non ha scioperato, "di non staccare del tutto la spina alla proprietà, ma di mantenere accesa almeno una fiammella nell'oscurità nella quale l'azienda è stata gettata dai dipendenti"; sono stati stati cacciati come dei reietti dai loro uffici e hanno dovuto riunirsi in piazza; allo stesso modo, ai rappresentanti sindacali è stato interdetto l'accesso nella loro sede di lavoro; è stato minacciato perfino il ricorso alle forze dell'ordine...parole inaudite o che si sarebbero potute sentire 40 anni fa, nemmeno in Italia, ma in Argentina.

Forse ho dimenticato qualche fatto nel mio resoconto, ma soltanto il pensare queste cose mi crea un certo imbarazzo nel pronunciare la parola 'proposta'. E ancora più imbarazzante è per me pensare alla possibilità di una contro-proposta. A chi mi attacca io non faccio proposte, bensì mi difendo e contro-attacco, anche se sono apparentemente più debole. Che lo sia è infatti tutto da dimostrare: io non sono da solo ma faccio parte di un gruppo. E mi sento ancora più forte se penso di avere ragione, come quando tutta questa vicenda è iniziata, non con una proposta ma con un atto unilaterale da parte della proprietà. E io ho ragione a pensare che un datore di lavoro non possa licenziare nessun dipendente perché la sua è un'azienda sana, perché gode di contributi pubblici che deve spendere per la sua impresa e non per altro. E grazie a questa ragione avrò ragione un giorno anche contro il decurtamento dello stipendio e di tutte le cose di cui ho parlato, che non devono essere intese come concessioni ma come diritti. Che saranno tali se i lavoratori saranno forti, perché i diritti appartengono a chi se li conquista e a chi lotta per mantenerli, mentre le concessioni, qualora ci siano, sono per i deboli. 
In conclusione, io non sono per la mediazione dato che qui non ci sono interlocutori, semmai uno che attacca e l'altro che deve, ha il dovere, di difendersi. Nel caso in questione, 'mediazione' non vuol dire altro che scegliersi una tomba più bella anziché una semplice e povera cassa da morto come quella che inizialmente volevano dare. 'Mediazione', nel nostro caso, vuol dire che i dipendenti facciano fronte a problemi che dovrebbe affrontare un imprenditore. Anche qui, infatti, nel caso delle possibili soluzioni emerse, dei contratti di solidarietà o della cassa integrazione, la parole sono importanti: chi è l'imprenditore e chi sono i dipendenti? Chi deve pagare gli stipendi, il primo o gli altri? Chi ha scioperato ha rinunciato a parte dello stipendio per far valere i propri diritti, non per fare delle concessioni a chi glie li calpestava. Io non voglio accordarmi con chi mi spara ma voglio avere, se ragione ho, ragione su di lui.

Tutto questo è l'antefatto, che andava raccontato, se non altro per far conoscere quanto accaduto e per far comprendere le ragioni dei lavoratori in questa vicenda, i quali sembrerebbero propendere per la lotta e per la difesa dei propri diritti. Riuniti in assemblea, sembrano dei combattenti sul piede di guerra, pronti a ogni sacrificio pur di ottenere la ragione in cui credono. Si opporranno all'iniziativa dell'azienda e, come credono, vinceranno ottenendo ragione contro i licenziamenti. Non solo, avranno restituita anche la parte sottratta dello stipendio che spetta loro. In base alle motivazioni elencate sopra, le singole teste si muovono insieme in un'unica direzione, sono un unico schieramento senza defezioni, sono come una marea che trascina con sé, e dentro di sé annulla, ogni particolarità, qualsiasi singolarità: una voce, un corpo, un movimento. 

Belle premesse, grande solidarietà, una motivazione collettiva senza precedenti. Ma ecco come è andata a finire: all'ultima assemblea i rappresentanti dei lavoratori fanno il resoconto dell'incontro fra le parti, terminato, a tarda sera e dopo un'estenuante trattativa durata un giorno intero, con la rottura: non c'è stato accordo, dato che l'azienda ha respinto anche l'ultima offerta del sindacato che si era detto pronto a rinunciare, pur di salvare i posti di lavoro, a una parte dello stipendio e a conteggiare le giornate di riposo settimanale secondo un sistema di calcolo favorevole all'azienda. Quest'ultima aveva ritenuto l'offerta insufficiente e, a questa notizia, nell'assemblea s'era diffuso un sentimento indefinibile, un guazzabuglio fatto di stupore e disappunto, ma anche di sollievo per un pericolo appena sventato di vedersi sottrarre dei diritti, e parte della paga.

Avete sentito bene, ho appena detto che, nella sua "ultima offerta, il sindacato si era detto pronto a rinunciare, pur di salvare i posti di lavoro, a una parte dello stipendio e a conteggiare le giornate di riposo settimanale secondo un sistema di calcolo favorevole all'azienda". C'è qualcosa che non quadra o sbaglio? L'insieme dei lavoratori non aveva appena detto di essere pronto alla lotta pur di ottenere ragione nei confronti della proprietà? Perché allora i rappresentanti sindacali hanno cercato di perseguire la mediazione, facendo delle offerte e delle concessioni, fortunatamente rifiutate? Qualcuno ha fatto presente tale incongruenza, ma è stato subito azzittito dal sindacato stesso, "il quale ha ricevuto pieno mandato dall'assemblea e la sua iniziativa, dunque, non è in contrasto con il suo ruolo principale di mediatore".

"Le vie legali, le vie legali", ha gridato a questo punto, di nuovo con voce unica, l'assemblea, ancora una volta l'unanimità dei lavoratori, la marea umana. Non c'è spazio per altri equivoci, stavolta la decisione è presa, non c'è più spazio per trattative che nemmeno prima ci sarebbero dovute essere. Da domani partono le lettere di licenziamento, ma anche il contrattacco, e la lotta entra nel vivo, vediamo chi la spunta, afferma spavaldo il coro dei lavoratori.
Il giorno dopo incomincia con il senso di vuoto tipico di chi si chiede "e adesso che succederà" e aspetta la mossa dell'avversario per mettersi in azione. Ben presto però, già nella mattinata, arriva la notizia che la proprietà e i rappresentanti dei lavoratori hanno raggiunto l'accordo: in sostanza, l'azienda ritira i licenziamenti a fronte delle concessioni fatte dai dipendenti ed elencate sopra, le stesse respinte due giorni prima.

Prima di qua, poi di là, ora alta poi bassa. La marea, tutta insieme, lo abbiamo capito ma ripetiamolo, univoca e indifferenziata, è entusiasta per il risultato ottenuto e canta vittoria: sono stati ritirati i licenziamenti, abbiamo vinto, un successo del sindacato, lotta dura senza paura, i lavoratori hanno vinto, una bella giornata frutto della lotta, bella pagina, ottimo lavoro, il risultato della forza e della tenacia della trattativa, è l'inizio di nuove relazioni in azienda, vittoria del sindacato e della ragione.    

Sono contento, ovviamente, che per il momento i lavoratori non vengano licenziati. Tutto bene quel che finisce bene. Ma quel che è incomprensibile, per me, è questo andirivieni delle posizioni, la contraddizione, più che l'incoerenza, di chi prima dice una cosa e subito dopo ne sostiene un'altra, del tutto opposta. La mancanza delle conseguenze logiche, più che di quelle pratiche, è ciò che più di ogni altra cosa è in grado di destabilizzarmi.

P.S. Li scrivo qui, questi pensieri sulle maree, perché questo è un posto che non dimenticherò e di cui non perderò traccia.
 Un luogo che un giorno potranno frequentare anche i miei figli.

Commenti

  1. Caro Cristiano sono contenta che la vicenda dei lavoratori di cui parli si sia conclusa, per il momento (come giustamente fai notare), senza licenziamenti anche se in cambio hanno dovuto rinunciare a parte dei loro diritti.
    Per quanto riguarda la contraddizione di cui parli, l'altalena tra posizioni tra loro opposte, non mi stupirei affatto se si trattasse di un caso da manuale di applicazione pratica del
    metodo Juncker nel qual caso sappi (ma credo tu già lo sappia) che ci riproveranno.
    Anche io scrivo sul mio blog pensando al mio lettore ideale: mio figlio

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    1. Diciamo che, più che del metodo Juncker, si è trattato del molto più prosaico metodo "fammece provà" o dell'antico quanto l'uomo metodo 'suk'. È stata semplicemente messa sul tavolo una posta estremamente alta con lo scopo di ottenere i vantaggi poi effetivamente avuti. Con la soddisfazione assurda di chi questi ha voluto concederli.
      Però non é questo il punto che mi interessa, ma la manipolazione e lo spostamento da una posizione all'altra della marea umana. È il piano assurdamente logico-consequenziale che ho visto in tutta questa vicenda ad ad avermi spaventato.

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  2. il link a cui mi riferivo era questo https://it-it.facebook.com/FermareIlCretino/posts/406095736173432 con gli altri, se vuoi, puoi approfondire.

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  3. Riflettendo sul motivo del mio scrivere anche io sono arrivato alla conclusione di farlo per mia figlia, per lasciare traccia dei miei pensieri.

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