Mentre torniamo a casa dopo la scuola, il bambino piccolo mi chiede perché mai io vada tutti i giorni al lavoro. Gli rispondo, senza troppi giri di parole e senza dirgli altre ragioni da quella principale, la più terra terra e anche la più vera, che "ci vado perché in cambio mi danno dei soldi".
Pausa brevissima e lui, il figlio di tre anni e quattro mesi, mi domanda testualmente: "E loro in cambio prendono te?".
Il che non è esattamente vero. Anzi, a pensarci bene, in gran parte lo è. Ma mi limito lo stesso a precisare che "in cambio prendono un po' del mio tempo: la mattina e un pezzo del pomeriggio".
Passa oltre e mi dice: "Con i soldi che ti hanno dato, mi compri i camaleonti fosforescenti in edicola?".
"Te li compro quando arriviamo, dal giornalaio sotto casa", i camaleonti, questi rettili che mutano colore, che cambiano le carte in tavola. Un po' come me, un po' come tutti coloro che chiamano le cose con un nome diverso da quello che hanno. E si illudono che tutto vada bene, anche le cose più semplici, quelle di tutti i giorni. E che di solito chiamiamo "normalità".
Capisco che "la professione" è una dimensione astratta per i bambini e fin troppo concreta per noi. Due percezioni che a prima vista non si possono incontrare ma che, ad un livello più profondo, secondo me, comunicano e si ritrovano.
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