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Tre secondi, anche meno


Domenica siamo andati a raccogliere le nocciole con un gruppo di persone che organizza questo tipo di escursioni, un po' alla moda ormai, "a contatto con la natura e alla ricerca dei sapori di un tempo", come quella di giugno nella quale andammo per fragole. Ebbene, adesso non voglio parlare davvero di frutta secca, anche perché ne abbiamo trovata poca, la maggior parte infatti erano gusci vuoti, né del fatto che, mentre i bambini frugavano nel terreno fra le foglie dei noccioli, io a un certo punto mi sono messo a cercare la cicoria. Racconterò invece una scena, a cui ho assistito e che sarà durata non più di tre secondi, e che in un lampo ha rimandato i miei pensieri a un episodio avvenuto la scorsa estate.
La scena è questa e a prima vista può sembrare banale: si è formata una piccola fila fra i partecipanti alla raccolta e a un certo punto il bambino piccolo, che mi precedeva, ha dato la mano a una signora che non conosceva. Non si è accorto dell'equivoco né lui né la donna, che pensava di tenere per mano suo figlio. Per tre secondi, anche meno, hanno camminato insieme, davanti a me, in mezzo ad altra gente, lungo lo sterrato. E io ho pensato a ciò che una volta mi disse una mia amica, che i bambini sono figli di tutti, anche delle altre persone, della collettività, nel momento in cui hanno bisogno di aiuto, in quei casi infatti non c'è differenza fra il mio vero figlio e un altro bambino (sconosciuto?). Un bambino cammina affianco a una madre, fra loro non sono necessariamente imparentati, ma le necessità del primo e l'istinto della seconda si esprimono comunque, si sintonizzano fra loro e comunicano, facendo sì che nasca spontaneamente una solidarietà naturale e immediata.
Il ricordo della scorsa estate è arrivato in un attimo: eravamo in un ristorante all'aperto, con noi c'era anche mio fratello, la compagna e la loro figlia. Accanto al nostro tavolo c'era un coppia con due bambini seduti di fronte ai genitori. La più piccola piangeva e gridava, avrà avuto al massimo un anno e ho pensato che si lamentasse perché era stanca. La mamma le dice una volta soltanto di abbassare la voce, di non piangere, mentre noi mangiamo e chiacchieriamo, e cerchiamo di far cenare anche i più piccoli. La bambina non smette e all'improvviso, rapidamente, la donna si solleva un poco dalla sedia e si allunga sul tavolo, quel poco che le basta per raggiungere con uno schiaffo violento il viso della piccola. E' un colpo secco e sonoro, a cui assisto personalmente e che, davanti ai miei occhi e alle mie orecchie, rimbomba come un boato nel mezzo di un silenzio che presumibilmente nemmeno esiste, siamo infatti in un ristorante, dove è tutto un via-vai di camerieri e clienti, di gente che mastica e che chiede il conto, di telefonini accesi e di altri bambini che giocano e gridano: un microcosmo nel quale ciascun abitante è concentrato nelle proprie attività momentanee e non ha alcuna colpa se non si accorge di quanto sta avvenendo a poca distanza dal proprio tavolo.
L'episodio dello schiaffo, infatti, si è svolto troppo velocemente e con la massima disinvoltura della madre e con l'assoluta indifferenza del padre, bisognava avere la sfortuna di trovarsi nella traiettoria dell'azione, così come si è trovato il mio sguardo, per accorgersi dell'accaduto, per vedere una neonata venir maltrattata da sua madre, per notare la totale estraneità con la quale ha compiuto il suo gesto, per assistere al silenzio (assenso) paterno, per guardare una bambina così piccola tornare poco dopo a piangere, più forte di prima dopo uno smarrimento momentaneo dovuto al colpo ricevuto, per vedere infine la donna alzarsi dalla sua sedia per andare a consolare la figlia, prendendola in braccio, forse pentita, forse imbarazzata, forse niente di tutto questo, magari si tratta soltanto della parte conclusiva di un modo abituale di fare (probabilmente ritenuto educativo, forse il modo in cui lei stessa è stata educata).
E io cosa ho fatto di fronte a questa scena, per una figlia che in un momento di difficoltà sarebbe dovuta essere anche mia? Mi è mancata la prontezza di una reazione istintiva, quella di alzarmi e di andare a dare anch'io uno schiaffone alla donna e di gridarle in faccia che non si trattano così dei bambini tanto piccoli. La prontezza di schiaffeggiarla, sì, davanti a tutti, anche di fronte ai miei figli, perfino a costo di dare loro un pessimo esempio. Una scenata plateale ci voleva, una di quelle alla Nanni Moretti, tanto per capirsi, dove l'indignazione non può essere trattenuta, ma deve esplodere di fronte a tutti.

Commenti

  1. "Per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero" dice un proverbio africano e il villaggio non significa solo "tante persone" ma tante persone che condividono un sistema di valori.
    Purtroppo la nostra società ancora ammette la violenza fisica come metodo pedagogico, come avveniva fino ancora a mezzo secolo fa con il lavoro minorile. Fintanto che il rifiuto di qualsiasi tipo di violenza in pedagogia non diventerà un valore condiviso non possiamo far nulla, Cristiano, tranne educare i bambini, i nostri e quelli degli altri, a pretendere di essere trattati con rispetto e senza violenza.
    Spero un'esperienza come quella che descrivi non ti capiterà più ma, in caso contrario, potresti dare uno schiaffo (morale) al genitore in questione facendolo riflettere sul modo in cui si sentirebbe se fosse lui al posto di suo figlio, l'ho letto qui e ne sono rimasta molto impressionata.
    E' un'anataccia per nocciole e noci.

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