Passa ai contenuti principali

"Il nostro primo viaggio"


Il figlio grande ha chiamato "il nostro primo viaggio" quello che sabato abbiamo fatto in bicicletta da casa in pineta. Lo ha definito così perché è stata la prima volta che siamo andati da qualche parte pedalando su tre biciclette differenti: la sua, la mia e quella del figlio piccolo.
Il secondogenito è caduto poco dopo essere partiti: c'era una buca nell'asfalto, la rotellina si è infilata lì dentro, la bici si è piegata su un fianco e il piccolo si è ritrovato per terra, dopo aver sbattuto la testa. Si è messo a piangere, l'ho consolato, ho guardato fra i capelli, dove la cute si era appena arrossata, si è lamentato ancora un poco ma poi si è calmato subito ed è ripartito come se nulla fosse. Ho detto ai bambini che "da domani si usano i caschi", che "a casa ne abbiamo uno rosso per il grande e uno giallo per il piccolo", ma quasi non ho fatto in tempo a convincerli che, appena arrivati in pineta, il figlio grande si mette a correre, perde l'equilibrio e cade, rovinosamente.
Mi precipito verso di lui mentre sta urlando: è una maschera di sangue, ha già un bozzo enorme sulla fronte, il naso graffiato, il labbro superiore gonfio e sanguinante, la bocca stessa è piena di sangue. Sputa, e un uomo che ci aiuta mi dice che ha visto dei denti cadere in terra. 
Piange ancora mentre raggiungiamo un bar lì vicino, dove chiediamo del ghiaccio da mettere sulla fronte. Alcune persone ci hanno accompagnati portando le biciclette e il bambino piccolo ci ha seguiti per quel breve tratto restandosene in silenzio. Durante il tragitto abbiamo incrociato gente che, alla vista della faccia di mio figlio, restava ammutolita e, tuttavia, non sapeva staccargli gli occhi di dosso.
L'ambulanza è arrivata dieci minuti più tardi, siamo entrati tutti e tre ed è partita verso l'ospedale, senza sirene spiegate. L'operatore ha guardato nella bocca e negli occhi del bambino, ha misurato il livello di ossigeno presente nel sangue, poi ha compilato un questionario: nomi, cognomi, età, come è successo? ha pianto subito? ha vomitato? ha nausea? gli gira la testa? Nessuno di questi sintomi, fortunatamente.
Siamo arrivati al pronto soccorso e dopo un poco un medico visita il bambino, mentre un'infermiera commenta, rivolgendosi a mio figlio: "Stavolta papà ti ha fatto male per davvero".
"Lo dice per sdrammatizzare o è una tecnica che usano per stanare i genitori violenti": nella mia mente si affolla immediatamente una serie di ipotesi sulla battuta che al momento non so definire né infelice e né sensata, probabilmente non mi importa nulla delle parole di una persona che neanche conosco, e poi ho già troppo da pensare a mio figlio, sto guardando i suoi occhi, che neanche la guardano, figuriamoci se prende in considerazione parole prive di senso.
Il medico dice che probabilmente il bambino ha soltanto una semplice contusione e varie escoriazioni, mentre in bocca non ha nulla e tutti i denti sono al loro posto. Decide di fargli fare una radiografia al naso e al polso, mentre per la testa non sa ancora se è il caso di prescrivere una Tac. Per il momento lo vuole tenere in osservazione e decidere dopo il daffarsi.
Andiamo in uno stanzino dove c'è una brandina: il bambino si sdraia, vuole riposarsi, mentre continua a lamentarsi per il dolore. Fa un po' freddo e vado a chiedere un lenzuolo all'infermiera di prima. Me ne dà uno verde. Le chiedo fra quanto faranno la radiografia e quanto dura l'osservazione. Mi stringe  un braccio con la mano, mi guarda negli occhi e mi risponde di non avere fretta, che loro si stanno occupando di mio figlio e quel che fanno è per il suo bene: non ho alcuna fretta, per la verità, e ho soltanto fatto una semplice domanda. Quel tono paternalistico, accorato e rassicurante mi infastidisce, mi sembra di essere trattato da cretino. Le chiedo altro ghiaccio da applicare sulla fronte.
Dopo un'ora di attesa sulla brandina, il bambino si assopisce e poco dopo arriva il medico a controllarlo. Lo chiama per svegliarlo con una certa insistenza e lui si desta quasi subito (ma, nel suo referto, il dottore scriverà che il paziente ha praticamente perso i sensi e ha avuto difficoltà nel riprendere coscienza. Il fatto, secondo me, è che l'incidente stesso e l'aver pianto a lungo lo hanno stremato e poi lo stare sdraiato per molto tempo, ad aspettare senza avere nulla da fare, hanno fatto sì che mio figlio si addormentasse). Mi consiglia di fare la Tac e un tecnico mi chiede l'autorizzazione. Io sono indeciso, le radiazioni sono pesanti, ma lui mi racconta che a questo esame ha sottoposto suo figlio neonato e che è meglio farlo per escludere qualsiasi problema importante. Mi sembra sincero e accetto senza pensarci ulteriormente.
Dopo un poco, il risultato: la Tac è negativa, fortunatamente, così come le radiografie. Ancora una piccola attesa e siamo dimessi. Ce ne torniamo a casa mentre penso a questa storia, all'incidente, al fatto che siamo stati fortunati, a quanto è stato bravo anche il figlio piccolo a essere altrettanto paziente del fratello, e maturo ad aspettare per così tanto tempo senza lamentarsi. Mi dice che gli è piaciuta l'ambulanza perché è più grande della nostra macchina. Gli rispondo che non la vendono e che non si può andare in vacanza con una macchina così.
Penso anche all'infermiera e alla sua frase, che soltanto ora giudico di cattivo gusto, e al medico che ha dovuto giustificare la Tac estremizzando una situazione che non mi è parsa quella che ha descritto, ma la burocrazia, si sa, e la medicina legale anche, probabilmente impongono certe motivazioni 'allarmanti'.
Penso a domani, a quando andrò a riprendere le biciclette in pineta, dal proprietario del bar dove le ho lasciate, lo stesso che la scorsa estate bruciò la maglietta del mio figlio piccolo dopo averla infilata nel forno a microonde. Ma questa è un'altra storia, che magari racconterò un'altra volta. Per ora ho presente ancora questo nostro "primo viaggio", che è finito male e che spero sia l'ultimo fra i viaggi di questo tipo.

Commenti

  1. Accidenti Cristiano mi dispiace tanto per dodokko ma per fortuna non si è fatto "niente", mi raccomando però: osservalo bene in questi giorni perché a volte lo choc vissuto in queste circostanze può lasciare strascichi, la famosa "paura" di cui sono certa tu abbia sentito parlare prima di trasferirti.
    Davvero mi dispiace tanto: i bambini non dovrebbero mai entrare in ospedale, d'altro canto se pensiamo a quelli che quasi ci vivono...
    Mi dispiace pure che tu abbia dovuto constatare che gli atteggiamenti che ho notato nel personale sanitario sono cosa abbastanza frequente: uno si presenta in ospedale con la massima fiducia, pensando solo a trovare qualcuno che possa aiutare suo figlio e trova questa variopinta umanità che ti tratta tra il diffidente e il deficiente ma sempre con molta professionalità, si capisce.
    Giorni fa mio padre ha sostituito lo stent, non ho potuto accompagnarlo perché ho dovuto occuparmi dell'intervento di una cara zia fissato per lo stesso giorno; dopo la dimissione aveva dolori importanti e tracce di sangue nelle urine. Ho provato a convincerlo a tornare in ospedale ma non ne ha voluto sapere, poi mi sono accorta che l'antibiotico che gli avevano prescritto non era il solito! Adesso ha iniziato nuovamente la terapia e pare vada meglio. Stavo pensando di chiamarli per vedere cosa mi dicono ma tanto già so che sarebbe una telefonata sprecata.
    Io non ce la faccio più; l'unica sarebbe non andarci, in ospedale. Purtroppo spesso siamo costretti ma nulla giustifica quello che sta accadendo in questo paese, questo concetto dobbiamo averlo tutti ben chiaro.
    Dai un gran bacio ai tuoi piccoli, a presto e con belle notizie, mi raccomando.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

La partita sul terrazzo

Il muretto sarà alto un metro e mezzo al massimo. È per questo che il pallone con cui giochiamo a calcio sul terrazzo è sgonfio. Perché non rimbalzi troppo, con il rischio che vada a finire di sotto e colpisca qualcuno di passaggio. È pur vero che di persone ne passano poche sotto casa in questi giorni e comunque è capitato, alcune volte, che la palla finisse in strada. È andata sempre bene, per fortuna. Il pallone che usiamo per giocare sul terrazzo non lo abbiamo sgonfiato apposta. È bucato. Lo aveva morso il nostro cane Spot a Villa Borghese, qualche tempo prima che ci chiudessero tutti in casa. Non so perché non lo avessimo buttato via subito, quel giorno. Adesso in ogni caso ci serve, per il motivo che ho detto.  Il terrazzo non lo abbiamo mai frequentato prima del coronavirus, i miei figli non c'erano mai stati. È uno di quei posti che appartengono a tutti i condòmini e che, proprio per questo motivo, non sono di nessuno, perché nessuno ha bisogno di andarci e tutti vog

Coronavirus: il lockdown e le ripercussioni sui figli minori dei genitori separati

Intervista all’avvocato Antonella Laganella, giudice onorario Corte d’Appello di Campobasso, sezione minori Riaprire o lasciare tutto ancora chiuso, ripartire insieme oppure a due o a tre velocità: mentre si discute sulle modalità di allentamento del lockdown e su come gestire la Fase-2 nell’ottica di un ritorno graduale alla normalità dopo l’epidemia, diventano sempre più problematici, a causa delle limitazioni agli spostamenti per contenere l’epidemia da coronavirus, i rapporti fra figli minori e i genitori non collocatari all’interno delle famiglie con coniugi separati. Ne parla all‘Adnkronos l’avvocato Antonella Laganella, giudice onorario della Corte d’Appello di Campobasso, sezione minori, che sottolinea quanto le misure urgenti adottate dal Governo abbiano inciso sui rapporti fra figli e genitori non collocatari. "Le conflittualità tra ex coniugi si sono intensificate - spiega l’avvocato Laganella - di pari passo con la crescente incertezza sull’interpretazione d

Quando siamo costretti ad ascoltare un racconto sbagliato

Una delle peggiori forme di violenza che può capitarci di subire è il racconto sbagliato di ciò che ci accade. Trovo delittuoso - non ho altri termini per definire qualsiasi tentativo di mistificazione - il voler far passare una cosa per un'altra, appositamente, come se fossi tu a non capire e a non renderti conto di ciò che hai intorno: essere trattato, in una parola, come uno scemo. Sono incapace di tollerare che si scambi la verità con la finzione, non riesco a concepire la possibilità di intercambiabilità dell'una con l'altra, con la prima che diventi falsità e la seconda assurga a Verbo e a voce di Dio o, più semplicemente, a resoconto puntuale. Eppure, sono molti a credere alle chiacchiere, a farsi soggiogare più dal suono delle parole, che ad ascoltarle criticamente, cercando di coglierne il significato. La voce, spesso, ha più peso della sostanza che una frase esprime: siamo più ascoltatori di suoni che di significati. E chi parla, spesso, si sente e si pone su