Ai tempi dell'università, durante una lezione di Filosofia del linguaggio, il titolare della cattedra, che alcuni studenti chiamavano Dumbo per via delle orecchie a sventola, un giorno parlò dell'importanza di ascoltare: citando Zenone di Cizio, disse che siamo dotati di due orecchie e di una sola bocca perché ascoltare ha un valore doppio rispetto al parlare.
Incontrai per la prima volta questo professore non all'università, ma quando avevo dieci anni, il giorno che venne nella mia scuola elementare a tenere una lezione sulle origini della lingua italiana. Era il 1980 e Tullio De Mauro era già il linguista affermato che più di 10 anni prima aveva tradotto il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure. Era inoltre l'uomo a cui, nel 1970, la mafia aveva ucciso il fratello Mauro perché, secondo la Corte d'Assise di Palermo, il giornalista "si era spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico Mattei".
Insomma, storie di ieri e questioni di oggi, tuttora aperte. Il curriculum e la sua esperienza personale la dicevano tutta, ma il linguista rivendica comunque il primato dell'ascolto su quello del proferire verbo. E io, da semplice matricola universitaria, lo guardavo incantato e senza parole, forse già dimostrando così di poter iniziare ad apprendere la sua lezione.
La capacità di ascoltare gli altri e di capire noi stessi, ancor prima di affermare ciò che pensiamo o di formulare il pensiero anche grazie al contributo di ciò che abbiamo ascoltato. Ma anche il voler riempire il vuoto di un silenzio con parole vacue, senza pensare che a volte perfino il silenzio può essere pieno di contenuti. Siamo avvolti da parole, suoni e rumori che riempiono l'aria di chiacchiere e fumo e intorbidiscono il pensiero, mentre ci illudono di essere nostri compagni. Vi sono televisioni e radio accese ovunque, telefonini che, con le loro applicazioni, notifiche, sms e chiamate, ci stanno col fiato sul collo da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire.
Ascoltare non è guardare distrattamente uno schermo o annuire con sufficienza quando qualcuno ci parla, ma cercare di capire mettendosi a disposizione di chi abbiamo davanti. Personalmente, io sono circondato da persone che, se provi a dire loro qualcosa, neanche ti lasciano concludere la frase che già hanno preso la parola, e non per precisare un'idea che stavi cercando di dire, ma soltanto per affermare la propria di idea e che magari non c'entra niente con quel che stavi dicendo poco prima. Il bisogno che hanno questi interlocutori è di prendere spazio, di farsi notare, di mettere davanti a tutto un proprio pensiero, qualunque esso sia.
È raro trovare qualcuno con cui parlare e con cui potersi esprimere, nel senso stretto del verbo: le poche volte che ciò mi è accaduto sono quelle nelle quali ho potuto fare delle ottime conversazioni. E sono anche quelle in cui chi parlava aveva principalmente voglia di capire l'altro. Non sono per niente un grande oratore, ma con le persone che sanno ascoltare ho saputo tirar fuori frasi e costruzioni logiche delle quali mi sono stupito in prima persona. Con chi non ascolta, invece, addirittura ho difficoltà a pronunciare frasi dal senso compiuto.
Ma la parte più complicata dell'ascoltare è quando la nostra azione si rivolge verso noi stessi: pensiamo a quali siano i nostri bisogni e li poniamo nel carrello della spesa, assieme a quelli degli altri e al nostro portafogli. Colui il quale si accorge delle parole di chi ha di fronte sa decifrare anche quelle che gli provengono dall'anima. A volte fa due conti e decide che spesso le istanze dell'uno e quelle dell'altro sono inconciliabili. E allora non fa che togliere dal carrello una parte della spesa: se è un egoista eliminerà ciò che spetterebbe all'altro. Se invece è un'altruista, com'è chi sa ascoltare il prossimo, rinuncerà felicemente a quel che aveva comprato per sé.
Le cose vanno in questo modo per chi ha la capacità di ascoltare e desidera anche farlo. Molto più di frequente accade invece che anche chi possiede questa dote decida di ignorarla, non fosse altro che per una questione di abitudine e di difesa: sto parlando di chi generalmente alza la voce e lo fa non tanto per farsi sentire, ma principalmente per non ascoltare, egli stesso, le parole dell'altro.
Insomma, storie di ieri e questioni di oggi, tuttora aperte. Il curriculum e la sua esperienza personale la dicevano tutta, ma il linguista rivendica comunque il primato dell'ascolto su quello del proferire verbo. E io, da semplice matricola universitaria, lo guardavo incantato e senza parole, forse già dimostrando così di poter iniziare ad apprendere la sua lezione.
La capacità di ascoltare gli altri e di capire noi stessi, ancor prima di affermare ciò che pensiamo o di formulare il pensiero anche grazie al contributo di ciò che abbiamo ascoltato. Ma anche il voler riempire il vuoto di un silenzio con parole vacue, senza pensare che a volte perfino il silenzio può essere pieno di contenuti. Siamo avvolti da parole, suoni e rumori che riempiono l'aria di chiacchiere e fumo e intorbidiscono il pensiero, mentre ci illudono di essere nostri compagni. Vi sono televisioni e radio accese ovunque, telefonini che, con le loro applicazioni, notifiche, sms e chiamate, ci stanno col fiato sul collo da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire.
Ascoltare non è guardare distrattamente uno schermo o annuire con sufficienza quando qualcuno ci parla, ma cercare di capire mettendosi a disposizione di chi abbiamo davanti. Personalmente, io sono circondato da persone che, se provi a dire loro qualcosa, neanche ti lasciano concludere la frase che già hanno preso la parola, e non per precisare un'idea che stavi cercando di dire, ma soltanto per affermare la propria di idea e che magari non c'entra niente con quel che stavi dicendo poco prima. Il bisogno che hanno questi interlocutori è di prendere spazio, di farsi notare, di mettere davanti a tutto un proprio pensiero, qualunque esso sia.
È raro trovare qualcuno con cui parlare e con cui potersi esprimere, nel senso stretto del verbo: le poche volte che ciò mi è accaduto sono quelle nelle quali ho potuto fare delle ottime conversazioni. E sono anche quelle in cui chi parlava aveva principalmente voglia di capire l'altro. Non sono per niente un grande oratore, ma con le persone che sanno ascoltare ho saputo tirar fuori frasi e costruzioni logiche delle quali mi sono stupito in prima persona. Con chi non ascolta, invece, addirittura ho difficoltà a pronunciare frasi dal senso compiuto.
Ma la parte più complicata dell'ascoltare è quando la nostra azione si rivolge verso noi stessi: pensiamo a quali siano i nostri bisogni e li poniamo nel carrello della spesa, assieme a quelli degli altri e al nostro portafogli. Colui il quale si accorge delle parole di chi ha di fronte sa decifrare anche quelle che gli provengono dall'anima. A volte fa due conti e decide che spesso le istanze dell'uno e quelle dell'altro sono inconciliabili. E allora non fa che togliere dal carrello una parte della spesa: se è un egoista eliminerà ciò che spetterebbe all'altro. Se invece è un'altruista, com'è chi sa ascoltare il prossimo, rinuncerà felicemente a quel che aveva comprato per sé.
Le cose vanno in questo modo per chi ha la capacità di ascoltare e desidera anche farlo. Molto più di frequente accade invece che anche chi possiede questa dote decida di ignorarla, non fosse altro che per una questione di abitudine e di difesa: sto parlando di chi generalmente alza la voce e lo fa non tanto per farsi sentire, ma principalmente per non ascoltare, egli stesso, le parole dell'altro.
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