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Nona lettera: essere semplici è complicato


"Come stai?", ho chiesto spesso in giro. La domanda che facciamo tutti a tutti, con la stessa spensieratezza di quando diciamo "ciao", tanto per salutarsi mentre ci si incrocia, un attimo prima che uno vada di qua e l'altro di là, chi si è visto si è visto, ciascuno per la propria strada.
Uno mi ha detto "bene, grazie", un altro "non c'è male", un altro ancora mi ha parlato del tempo, uno non ha neanche risposto, forse non mi ha sentito o ha preferito inseguire i propri pensieri fino a casa, una donna ha farfugliato qualcosa di incomprensibile, un bambino mi ha chiesto un gelato, un uomo ha accennato a certi suoi problemi senza tuttavia dirne uno, avrebbe voluto raccontare qualcosa ma la paura d'essere scoperto lo ha vinto sul più bello, un altro mi ha parlato di un fatto di cui mi avrebbe detto comunque, a qualsiasi altra, minima occasione, in risposta a qualunque altra domanda, un gatto ha miagolato e subito dopo ha sbadigliato, un cane ha mosso la coda soltanto una volta e poi si è dileguato, una cornacchia è volata via senza pensarci nemmeno un secondo, un gabbiano è restato a guardare con un occhio solo, giallo come le sue zampe.
Io ho chiesto "come stai", in maniera disinteressata, tanto per salutare ed essere educato. Come fanno tutti, la cosa più semplice da chiedere, la più complicata a cui rispondere. Le risposte, infatti, sono state le più svariate, le più 'fuori tema' e non serve avere una grande fantasia per immaginare quali potrebbero essere quelle date a una domanda un po' più articolata. Perché non rispondiamo alle domande? Perché aggiungiamo altri contenuti? Perché, invece di capire che domanda ci stanno facendo e quali risposte possibili vorrebbe chi ce la rivolge, ci mettiamo del nostro, aggiungendo o sottraendo pezzi della nostra stessa vita? 
Rispondere a una domanda significa doverla prendere in considerazione, dando ragione o torto alle aspettative del nostro interlocutore. Invece, spesso mostriamo soltanto il nostro egocentrismo, in noi prevale il bisogno di dire o negare ciò che abbiamo dentro, partendo, insomma, da noi stessi, dalla nostra risposta, da ciò di cui vogliamo parlare e non dalla domanda che ci hanno appena fatto. Diciamo ciò che non ci è richiesto, per ragioni ideologiche o psicologiche, a volte per affermare violentemente noi stessi, per essere amati o ammirati o detestati, per far colpo su qualcuno o allontanarlo da noi, per scuotere le coscienze, per scandalizzare, per essere capiti, per un bisogno di amicizia e di solidarietà, per la diffidenza che si prova verso qualcuno o nei confronti del mondo. Siamo faziosi, siamo partigiani, non siamo affatto obiettivi, siamo colmi fino al collo di ideologia, siamo irrigiditi in noi stessi, non possediamo più l'elasticità che serve per capire gli altri. Tutta la comprensione possibile per chi non risponde: fatto sta che è davvero pesante avere a che fare con gente, tutti i giorni, con cui comunicare è impossibile. 
Che cos'è il bene, che cos'è la giustizia, che cos'è la virtù: che cos'è, domandava Socrate a coloro che gli chiedevano di parlare di questi argomenti e che pretendevano di saperne più di lui, ma lo sfidavano comunque a un duello dialettico. Che cos'è, che cosa intendi tu per bene, per giustizia e per virtù? Prima di discuterne, mettiamoci d'accordo sul significato delle parole, per capirci cerchiamo prima di usare la stessa lingua, chiedeva il filosofo greco prima di iniziare a dialogare. Duemilacinquecento anni dopo, in Tutti i nomi, José Saramago dichiara: "Conosci il nome che ti hanno dato, non conosci il nome che hai". Un modo per ribadire il fatto che un individuo non è conoscibile fino in fondo neanche da se stesso e che di lui si possono avere soltanto le interpretazioni che gli altri, e fra questi anche egli stesso, ne danno. Il nome è ciò che distingue un uomo dall'altro, è ciò che lo rende individuo. Ciascuno di noi, nella propria specificità, è unico. Si può arrivare a conoscere noi stessi attraverso l'interpretazione degli altri e nostra, tuttavia l'io più interno e remoto resta irraggiungibile. Forse è proprio questo il limite più grande che possediamo e che possiamo arrivare a imparare nel tentativo di cercare di conoscerci.
Il messaggio di questa nona lettera è che spesso ci complichiamo la vita perfino mentre facciamo le cose più banali o parlando di fatti abbastanza terra terra. Invece, dovremmo cercare di semplificare ancora di più quel che a volte è già semplice, anziché renderlo difficile. Al nostro interlocutore dovremmo chiedere, più frequentemente e senza il minimo imbarazzo, cosa egli intenda quando usa una tale parola o un certo aggettivo. Soprattutto, dovremmo rinunciare alla nostra presunzione aprendoci di più al prossimo, senza paura né fatica, proprio come fa il fiore quando sta davanti al sole ovvero con grande semplicità e naturalezza. Forse è proprio questo l'unico modo che ci è dato per conoscere il vero nome che abbiamo, non soltanto quello che ci hanno dato.

Commenti

  1. Colgo al volo il tuo invito a semplificare e provo a togliermi un dubbio banale ma insistente: perché "lettere a mio figlio"? E non "lettere ai miei figli"?

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  2. "Lettere a mio figlio" perché per figlio intendo la categoria, nella quale rientrano ovviamente anche i miei di figli. Siccome un blog è sì un diario personale, ma è anche condiviso con il pubblico che lo legge, non ho voluto personalizzare troppo la rubrica parlando esclusivamente ai miei bambini, ma ho preferito allargare il raggio dei destinatari usando paradossalmente il singolare.
    La grammatica a volte è più problematica della realtà. Anche qui semplificare è complicato: se uso il plurale parlo a pochi, se invece adopero il singolare mi rivolgo a molti.

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