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Decima lettera: essere e apparire


I due modi di 'essere' spesso coincidono e sarebbe più giusto, e soprattutto più vero, dire "essere è apparire" anziché distinguerle, queste due possibilità di vivere. Alcune persone che conosco coltivano una propria immagine, la alimentano e hanno paura di apparire diversamente da come vogliono. Ci sono uomini che vestono i panni di personaggi più o meno reali, a volte immaginari e che corrispondono alle loro aspirazioni, a ciò che vorrebbero essere. Sono atteggiamenti, quelli che hanno, che si sono protratti oltre il periodo adolescenziale e che manterranno per tutta la durata della loro esistenza. Spesso, non solo si ispirano ad altri e aspirano a essere come loro, ma addirittura fanno finta di essere altri, finendo per crederci per primi: è qui, in questo fenomeno patologico, di scambio di posto fra l'apparenza e l'essere, dove la prima sostituisce il secondo, che quest'ultimo si perde. 
Conosco un popolo di attori che recitano in film dove non esiste neanche una telecamera per riprenderli. Gente che vive la vita d'altri, che nemmeno dice più altro da ciò che pensa ma che perfino non pensa ad altro se non a ciò che deve dire. Il pensiero, l'esistenza, ciò che fanno ogni giorno, non solo non appartengono più a loro stessi, ma li ingannano in maniera sempre più inconsapevole.
Nessuno riesce a essere senza apparire, ci sono infatti troppi filtri fra noi e il mondo, ognuno di noi ha il nome che gli altri ci danno e non il nostro, che in ultima analisi resta sconosciuto perfino a noi stessi. Nessuno di noi conosce il proprio io più profondo, figuriamoci se possono saperlo gli altri. Ma una cosa è cercare di essere se stessi e un'altra è cercare di essere altri da noi: la differenza fra i due modi di essere è nelle nostre vere intenzioni, non nel risultato visibile. Una cosa è rendersi conto di non vivere la propria vita e un'altra è pensare di vivere la vita di qualcun altro.
Nessuno di noi vive veramente la vita che vorrebbe, perché questa è un compromesso continuo fra ciò che desideriamo e ciò che possiamo avere, lo dice uno che non faccio fatica a definire un bel po' rigido, soprattutto quando pensa di avere ragione, riguardo a tutto ciò che possa ruotare attorno a una frase come "mettiamoci d'accordo". Ma il desiderio e la volontà, lo sto ancora imparando, non possono evitare di scontrarsi con le possibilità date e con la realtà che si trovano davanti.
Detto questo, torniamo ai giorni nostri, che parlano di immigrazione e di naufragi, di popoli che si imbarcano su zattere per attraversare il mare immenso e di mercanti di schiavi. Di scafisti schiavisti, di frontiere, di chi accoglie e di chi respinge, di chi è aiutato, di chi aiuta e di chi vuol essere aiutato ad aiutare. Di chi uccide nel nome della religione e di chi si aggrappa ai morti per non annegare. Di chi dice "Dobbiamo bloccare le partenze" e intanto pensa "morite di fame nei vostri paesi". 200, 700, 900 morti nell'ultima settimana e un milione di persone pronte a tutto pur di partire dalle coste libiche.
E torniamo anche ai miei di giorni, alla festa di compleanno di una compagna del figlio grande, domenica scorsa, in una periferia di Roma, in un parco giochi che per un momento mi ha fatto immaginare di essere a Manila. Nello spazio allestito per l'occasione, la famiglia allargata dei filippini, madre e padre della festeggiata, zie e zii, fratelli e cugini,  parenti e amici, una piccola comunità formata da una cinquantina di persone, ognuna delle quali aveva preparato qualcosa da mangiare e da offrire agli altri, piatti tipici della loro cultura gastronomica, almeno credo, anche se dei dubbi li ho avuti quando ho visto degli spiedini con wurstel, olive e marshmallow, "ma ai bambini piacciono le cose dove il salato si mischia al dolce", ha detto la signora che li aveva preparati, incoraggiava in continuazione, soprattutto gli ospiti italiani, ad assaggiare il loro cibo, anche se io non l'ho fatto, ma non per un mio pregiudizio personale, piuttosto per il fatto che ho bisogno di sapere e di capire bene cosa c'è nel mio piatto e certi ingredienti non li avevo decifrati bene, e mi sono 'limitato' a sfondarmi di ben più familiari patatine, nonché di palline di mais e birra calda, che il papà della compagna di mio figlio continuava a versare nel mio bicchiere non appena si accorgeva che era vuoto.
"Ancora birra?", chiedeva, "mangia tutto quello che vuoi", ripeteva in continuazione, "puoi prendere quel che ti pare", insisteva, mentre la moglie e una nipote riempivano di gettoni per giocare le tasche dei compagni della figlia. Erano ospitali, insomma, generosi oltremisura. Ma non perché volevano ostentare una forma qualunque di agiatezza, come potremmo fare noi, ma perché l'ospite, finché è con loro, è il re della casa.
"Ancora dieci anni di lavoro è torno al mio paese, nella mia casa a due metri dal mare", mi ha detto a un certo punto il papà della bambina, che è già da trent'anni in Italia. E appena ho ascoltato il suo progetto a così lungo termine, ho pensato che io stesso non ne possiedo uno che sia anche minimamente diverso, figuriamoci se me ne posso permettere uno simile o rivoluzionario, da ciò che per me è abitudinario, né per domani, e né per un futuro sia prossimo che remoto. La paura di perdere quel poco che abbiamo ci fa restare aggrappati alla nostra terra, nelle nostre case, entro i nostri confini. E non ci fa progettare nulla, perché ogni novità è un pericolo e chi rischia di più è chi non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Il nostro comportamento è vile anche se appare come prudente, i nostri 'imprenditori' investono soltanto se il guadagno è già stato assicurato. Chi ha una ricchezza modesta, se la tiene e la difende con i denti contro qualunque straniero o sconosciuto, contro qualsiasi ladro vero o soltanto presunto. Il nostro è un atteggiamento aristocratico, di chiusura in noi stessi e di sbarramento nei confronti del prossimo: siamo una piccola élite che difende i propri interessi e che vede nel prossimo soltanto un rischio o un ostacolo.
Le persone che ti offrono tutto ciò che hanno, e che fra di loro si aiutano e collaborano, come la piccola comunità che ho conosciuto domenica, ti lasciano il cuore pieno di speranza per il futuro. A fine giornata, ho chiesto a mio figlio se la festa alla quale avevamo appena partecipato gli fosse sembrata diversa dalle altre alle quali eravamo stati in passato. Mi aspettavo una risposta tipo: "Sì, c'erano molti stranieri". Invece mi ha detto: "Sì, mi sono divertito molto di più rispetto a tante altre volte e vorrei che la mia festa fosse simile a quella della mia amica".
Insomma, mio figlio non ha badato minimamente a chi ha partecipato al compleanno della sua amica e si è divertito con tutti i suoi compagni, che per lui non hanno differenze né somatiche e né culturali. Penso che la scuola pubblica italiana sia fantastica dal punto di vista dell'integrazione degli allievi e che gli insegnanti abbiano tanto da trasmettere non solo agli studenti, ma anche agli adulti che guardano lo straniero come una persona diversa. La scuola è ormai multietnica e interrazziale e i nostri figli sono nati e stanno crescendo in una società che ha già le caratteristiche del mondo che sarà e che è lo stesso che spaventa quanti ci avvertono che, con una natalità così bassa, siamo destinati a scomparire in quanto 'pura' razza italica, soppiantati o al limite imbastarditi da immigrati di gran lunga più prolifici di noi.
Detto anche questo, superate (per modo di dire, magari prendendo l'esempio di uno straniero altruista o di un bambino a cui non importa nulla di sapere dove sia nato chi si ritrova davanti) le questioni relative a chi vuole apparire piuttosto che essere, mi chiedo se abbia davvero ancora un senso dire di voler "bloccare all'origine i flussi migratori", fenomeni che sono sempre esistiti e che sono dettati dalla necessità del tutto naturale di ricercare, ovunque esse siano, condizioni di vita migliori. Mi domando inoltre se davvero possa dirsi umano l'atteggiamento di chi vede nello straniero un pericolo per la propria incolumità o un rischio economico per il proprio paese, e se non dobbiamo ricordarci, adesso più che mai, della nostra cultura cristiana dell'accoglienza. Che è anzitutto soccorso per chi è in difficoltà e non uno scarica barile continuo nella direzione di un potere centrale (europeo) che dovrebbe e deve, è vero, occuparsi delle emergenze, ma a livello macroscopico, mentre il problema è urgente, è nell'immediato, ed è proprio qui da noi e non a Bruxelles. Ma anche qui, quando è in gioco la pelle (degli altri), a prevalere su tutto è l'apparenza, la propaganda, il fumo negli occhi.

Commenti

  1. Ricordo vagamente anni fa una pubblicità progresso nella quale si inquadrava il piano alto di una casa bello e solido e poi quello basso pieno di crepe e prossimo al crollo. Il commento diceva più o meno che dal benessere dei paesi più poveri dipendeva il nostro. Quella pubblicità mi inquietò non poco: era volutamente criptica e ricordo di non averne compreso, allora, il senso. Adesso mi è chiarissimo.
    Pur coi nostri problemi siamo dei privilegiati, ciò che abbiamo dipende dalla fortuna di esser nati in un paese "civilizzato" e l'idea che qualcuno possa aspirare alle nostre sicurezze la viviamo come un'usurpazione.
    Eppure potrebbe valere per il benessere ciò che vale per l'amore genitoriale: all'aumentare dei figli esso si moltiplica invece che dividersi.
    Potrebbe essere così ma, attualmente, nulla si sta facendo in questa direzione e non ci rimane che vivere nella paura che vengano a toglierci quello che, siamo convinti, ci spetti per diritto di nascita.

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