Occasionalmente mi capita di parlare con questa persona, con la quale i discorsi finiscono sempre per prendere una piega estrema. L'altro giorno l'argomento era il pilota della Germanwings che si è schiantato con il carico di passeggeri che trasportava. La domanda, a proposito del gesto folle dell'uomo, è stata la più ovvia: "Perché Andreas Lubitz non si è suicidato da solo, senza sacrificare le altre 149 persone a bordo dell'aereo?".
Non altrettanto scontata è stata la risposta che ha dato: "Non lo so, forse era depresso e quando sei depresso non sei in grado di capire bene quello che succede. Quando lo sono stata io, per la morte di mio figlio, ho provato a soffocarmi con un sacchetto di plastica. Ma sai, non è per niente facile suicidarsi, perché alla fine prevale quasi sempre l'istinto di sopravvivenza. Siamo degli animali, infondo, e siamo dotati di un forte spirito di adattamento, anche di fronte al peggiore dei mali".
E' la seconda volta, nel giro di neanche un anno, che sento la frase "non è per niente facile suicidarsi". Mi ha confessato questa sua difficoltà, per primo, un mio amico, a settembre, quando andai a trovarlo nell'ospedale dove era stato ricoverato dopo aver tentato il suicidio con il cianuro. In quell'occasione, mi raccontò con una lucidità estrema, quasi come se non parlasse di se stesso ma di un altro, di come avesse messo a punto il suo piano per togliersi la vita: aveva fatto una ricerca in Internet su come procurarsi il veleno, aveva inoltrato l'ordine a un fornitore dicendo che la sostanza gli serviva per il proprio lavoro, si era fatto recapitare il pacchetto in ufficio perché, a casa, sua madre - era già successo - avrebbe potuto intercettarlo.
Una volta arrivato il veleno, lo aveva 'soltanto' assaggiato, lontano dagli sguardi dei colleghi, per semplice curiosità, per provarne il sapore. La sua intenzione, infatti, era di morire in casa, da solo in camera sua. Ma era bastato quel piccolo assaggio per mandarlo in ospedale, in coma, e per salvarsi la vita: una dose di poco più grande sarebbe stata letale.
Qualche mese dopo il suo gesto, pochi giorni prima della fine del ricovero, dato che parlava di ciò che aveva fatto con estrema freddezza e lucidità, gli ho chiesto perché mai avesse scelto proprio il veleno per uccidersi, con tutti i giri annessi per procurarselo. "Non sarebbe stato più semplice gettarsi da una finestra o buttarsi sotto a un autobus?" gli ho chiesto, un po' ironico. "Non è semplice suicidarsi", mi ha risposto franco.
Forse manca il coraggio di andare fino in fondo, di fare quell'ultimo passo dopo il quale non si può più tornare indietro. Uccidersi con un veleno significa farlo in maniera parzialmente inconsapevole, dato che non sai bene cosa succederà all'interno del tuo organismo, come reagirà?...Magari - pensi o speri - puoi ancora salvarti, chissà cosa si desidera realmente. Buttarsi da una finestra, invece, il vuoto, quei secondi interminabili prima dell'impatto con il suolo, il dolore nel caso non si morisse immediatamente, tutto questo è meglio evitarlo, meglio qualcosa di meno cruento.
Non so che cosa c'è nella mia, figuriamoci se posso immaginare che cosa ci sia nella testa di un depresso. Non mi permetto di azzardare ipotesi, né voglio dire con facilità che chi tenta di ammazzarsi è un cretino, anche se questa è la prima cosa che mi viene in mente. Più di questo, a colpirmi è la parte del discorso iniziale nel quale la signora parlava del nostro spirito di adattamento, anche di fronte al peggiore dei mali, come quello della perdita di un figlio.
Non c'è scampo, o l'una o l'altra: adattarsi, infatti, significa salvarsi. Non farlo vuol dire ammalarsi. Ma adattarsi senza accettare è convivere con la bruttezza dell'esistenza, non possedere più una coscienza. Respingere la realtà, invece, è deprimersi guardando il mondo con la lente d'ingrandimento e il male, forse, nella sua giusta proporzione.
Cosa preferibile - se soltanto si potesse scegliere ! - sarebbe quella di trovare delle spiegazioni e farsi una ragione di ciò che è capitato, senza classificare necessariamente la morte come un male, ma come una delle cose che possono accaderci oppure - a seconda dei punti di vista - come una delle possibilità che la vita ci offre. Sono terribilmente scontato - lo so -, ma l'ho già detto che non conosco che cosa passi nel cervello di un altro, così come sono consapevole del fatto che ciascuno di noi ragiona a modo proprio e chi ho davanti - è banale ma è così - ha la sua testa, non la mia (la quale, inoltre, sarà per lui di gran lunga preferibile).
Io vivo la mia vita cercando di adattarmi anche a certe bruttezze, non a quelle peggiori, che, se posso, cerco di evitare. Le altre, quelle minori, un po' le accetto, spesso me ne resto in attesa, aspetto il momento giusto, l'occasione propizia, che a volte ci si presenta, per cambiare direzione. Accanto a queste, mi accontento di godere di certi bei momenti che capitano e che a volte durano pochi secondi e di cui cerco di accorgermi.
Ad esempio il sorriso di mio figlio, ieri, mentre andava sullo scivolo, soddisfatto del fatto che non riuscissi ad afferrarlo in tempo prima che arrivasse per terra. Il suono della sua risata, che presto non sarà più lo stesso perché cambierà nella voce di un adulto. Ecco, cerco di appuntarmi mentalmente questi istanti, alcuni di loro li trascrivo in questo blog, cerco di dare un senso che sia bello alla mia vita, che è tale e quale a quella di chiunque altro: sto parlando dei sentimenti e delle emozioni che ci accomunano, non certo dei fatti e delle circostanze particolari.
Qualche mese dopo il suo gesto, pochi giorni prima della fine del ricovero, dato che parlava di ciò che aveva fatto con estrema freddezza e lucidità, gli ho chiesto perché mai avesse scelto proprio il veleno per uccidersi, con tutti i giri annessi per procurarselo. "Non sarebbe stato più semplice gettarsi da una finestra o buttarsi sotto a un autobus?" gli ho chiesto, un po' ironico. "Non è semplice suicidarsi", mi ha risposto franco.
Forse manca il coraggio di andare fino in fondo, di fare quell'ultimo passo dopo il quale non si può più tornare indietro. Uccidersi con un veleno significa farlo in maniera parzialmente inconsapevole, dato che non sai bene cosa succederà all'interno del tuo organismo, come reagirà?...Magari - pensi o speri - puoi ancora salvarti, chissà cosa si desidera realmente. Buttarsi da una finestra, invece, il vuoto, quei secondi interminabili prima dell'impatto con il suolo, il dolore nel caso non si morisse immediatamente, tutto questo è meglio evitarlo, meglio qualcosa di meno cruento.
Non so che cosa c'è nella mia, figuriamoci se posso immaginare che cosa ci sia nella testa di un depresso. Non mi permetto di azzardare ipotesi, né voglio dire con facilità che chi tenta di ammazzarsi è un cretino, anche se questa è la prima cosa che mi viene in mente. Più di questo, a colpirmi è la parte del discorso iniziale nel quale la signora parlava del nostro spirito di adattamento, anche di fronte al peggiore dei mali, come quello della perdita di un figlio.
Non c'è scampo, o l'una o l'altra: adattarsi, infatti, significa salvarsi. Non farlo vuol dire ammalarsi. Ma adattarsi senza accettare è convivere con la bruttezza dell'esistenza, non possedere più una coscienza. Respingere la realtà, invece, è deprimersi guardando il mondo con la lente d'ingrandimento e il male, forse, nella sua giusta proporzione.
Cosa preferibile - se soltanto si potesse scegliere ! - sarebbe quella di trovare delle spiegazioni e farsi una ragione di ciò che è capitato, senza classificare necessariamente la morte come un male, ma come una delle cose che possono accaderci oppure - a seconda dei punti di vista - come una delle possibilità che la vita ci offre. Sono terribilmente scontato - lo so -, ma l'ho già detto che non conosco che cosa passi nel cervello di un altro, così come sono consapevole del fatto che ciascuno di noi ragiona a modo proprio e chi ho davanti - è banale ma è così - ha la sua testa, non la mia (la quale, inoltre, sarà per lui di gran lunga preferibile).
Io vivo la mia vita cercando di adattarmi anche a certe bruttezze, non a quelle peggiori, che, se posso, cerco di evitare. Le altre, quelle minori, un po' le accetto, spesso me ne resto in attesa, aspetto il momento giusto, l'occasione propizia, che a volte ci si presenta, per cambiare direzione. Accanto a queste, mi accontento di godere di certi bei momenti che capitano e che a volte durano pochi secondi e di cui cerco di accorgermi.
Ad esempio il sorriso di mio figlio, ieri, mentre andava sullo scivolo, soddisfatto del fatto che non riuscissi ad afferrarlo in tempo prima che arrivasse per terra. Il suono della sua risata, che presto non sarà più lo stesso perché cambierà nella voce di un adulto. Ecco, cerco di appuntarmi mentalmente questi istanti, alcuni di loro li trascrivo in questo blog, cerco di dare un senso che sia bello alla mia vita, che è tale e quale a quella di chiunque altro: sto parlando dei sentimenti e delle emozioni che ci accomunano, non certo dei fatti e delle circostanze particolari.
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