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Antonello


Tutto sarà durato meno di un minuto. Escluso il tempo che ci ha messo per scendere e bussare alla porta e quello che ho impiegato io per vestirmi e salire al piano di sopra. 
La signora si scusa in anticipo per il disordine in casa. Il figlio cinquantenne è per terra, accanto a un divano, nella stanza a destra, appena dopo l'ingresso. E' caduto dal letto, nella camera in fondo al corridoio, e la madre - me lo racconta lei stessa - lo ha trascinato per i piedi fino al solottino. E' troppo pesante, il figlio, perché lei riesca a sollevarlo da sola e a farlo sdraiare sul divano. E anche insieme ce la facciamo a stento. Io lo prendo dalle braccia, lei dalle gambe e, quando è ancora soltanto appoggiato all'inizio della seduta, ancora in bilico, lei lo incita, ripetendoglielo tre, quattro volte di seguito,  a "spostare il culo verso lo schienale".
Nel frattempo lui mi osserva, come si guarderebbe un estraneo (questo in realtà sono) che comparisse di punto in bianco in casa tua. Fra l'intontito e l'intimorito, senza togliermi gli occhi da dosso e senza dire una parola. La madre lo rassicura, dicendogli che "c'è Antonello, è arrivato Antonello". Io non mi chiamo Antonello e penso che questo sia il nome di qualcuno che il figlio conosce. 
C'è puzza in quella casa, di corpi sporchi o mal lavati, di sudore stantio, di sporcizia sedimentata negli abiti. E c'è una montagna di oggetti, di vestiti e di mobili, accatastati gli uni sugli altri, nell'unica stanza che ho visto, che partono dal centro del pavimento e raggiungono le tre pareti circostanti.
"Si è pisciato sotto", mi dice la madre, senza che io le abbia chiesto niente. Le consiglio di mettere una sedia, con qualcosa sopra, contro la sponda del divano, affinché il figlio non corra il rischio di ricadere. O qualcosa di più pesante. Lei avvicina un termosifone, di quelli a olio con le rotelle, e io le dico che, se cadesse su quello, il figlio si ferirebbe contro quegli spigoli taglienti. Mi da retta e lo allontana di nuovo, senza rimpiazzare con nulla quella prima soluzione sbagliata.
Mi riaccompagna alla porta, la madre. Ringraziandomi e continuando a chiamarmi Antonello, anche quando il figlio è ormai distante e non può più sentirci.
Ciascuno di noi finisce per cucirsi addosso un mondo chiuso e distante dagli altri. Una realtà che orbita attorno a noi e che ci giustifica in ogni caso, dato che le nostre intenzioni sono sempre buone, anche quando sbagliamo. Relazioni umane, che all'inizio poggiano su equilibri precari grazie a forze di gravità inedite, nascono e si rafforzano, divenendo negli anni sempre più stabili. Routine, abitudine, un cerchio che si chiude ogni sera, qualcosa che si ritrova al mattino, identico a come te lo aspetti.
In questi microcosmi trovi genitori e figli come quelli che ho incontrato l'altra sera, in evidente disagio sociale e igienico. Hanno un'idea dell'amore del tutto soggettiva, un tipo di sentimento egoistico che si fonda su bisogni attribuiti e presunti, non su quelli reali e oggettivi di chi amano. Pensano di sapere con assoluta certezza quali siano le sue necessità e, per questo motivo, non chiedono mai, a questi, che cosa desideri per davvero.
Io non voglio addentrarmi oltre in questo tipo di relazioni umane, non mi spingo più in là di quanto detto in questo mio breve racconto. Rispetto sia la madre che il figlio e credo che, dopotutto, loro siano felici così, con le loro abitudini, nel loro minuscolo mondo chiuso, nel piccolo cerchio che ogni mattina aprono e che ogni sera chiudono. Diverso, eppure uguale a tanti altri cerchi che ci girano attorno, differente e identico al mio e al tuo. Ognuno è chiuso nella propria realtà, affianco a quella di tanti altri individui come noi. Vicini e insieme distanti, non c'è possibilità alcuna di comunicare, al di fuori del nostro microscopico e rassicurante mondo. Indifferente a quello degli altri.
Per me, il figlio e la madre restano due estranei, come lo sono io stesso ai loro occhi, anche se una sera ci sono entrato in contatto, del tutto casualmente. Non sono forse Antonello, per loro?

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