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Sedicesima lettera: la felicità è un dovere verso se stessi


Qualcuno pensa che tornare a casa sarebbe la cosa migliore che potrei fare, almeno per voi, per il vostro bene.
Ma io non sono d'accordo, per due motivi, che adesso vi spiego anche se il rischio di essere retorici è dietro l'angolo: il primo è che non è giusto che vi abituiate all'idea che una relazione litigiosa, come quella che c'è stata finora fra vostra madre e vostro padre, sia una cosa accettabile e addirittura normale. Per il semplice fatto che il solo esempio che avete davanti agli occhi è quello che vi offriamo quotidianamente noi genitori, non sapete ancora che esistono famiglie nelle quali i genitori si rispettano e, se discutono, lo fanno senza alzare la voce, perlomeno in presenza dei figli. Salvaguardarvi dai toni violenti e da ogni sorta di sentimento negativo, dell'uno nei confronti dell'altra, e che trapelava ormai in ogni frase, io e mamma non siamo stati mai capaci di farlo. I nostri battibecchi, gli insulti, le parole sprezzanti, l'astio e la rabbia hanno finito per investire anche voi, che davvero non c'entravate nulla con i nostri problemi.
La relazione fra uomo e donna non dev'essere concepita nella maniera in cui l'avete conosciuta voi per nostra colpa. Le cose possono andare anche diversamente e una coppia può vivere in modo più armonico, nel rispetto delle differenze che pur sempre esistono, anzitutto quelle delle rispettive idee.
Tornare per continuare a vivere un rapporto conflittuale sarebbe anzitutto diseducativo nei vostri confronti, perché da noi genitori non avreste altro insegnamento se non quello di perpetrare il nostro  assurdo modello con le compagne che anche voi un giorno avrete. E non mi piace pensare che un domani possiate vivere ogni minuto che passerete con chi amate discutendo e litigando come forsennati, così come abbiamo fatto finora io e vostra madre.
Il secondo motivo, per cui non penso di tornare, è che credo si debba avere rispetto per se stessi, ci si debba un pochino amare e si abbia il dovere di essere felici. Non è, il mio, un pensiero egoistico, seguendo il quale ci si dimentichi di chi ci sta intorno, perfino dei figli. Lo sapete bene: la vostra felicità, per me, viene prima d'ogni altra cosa al mondo e, anzi, sapervi felici non può che rendere immensamente felice anche me stesso.
In questo momento, non sono affatto contento, allontanarmi non mi rende ancora una persona felice. Ma restare con vostra madre non mi farebbe stare bene, non voglio più vivere così come ho fatto soprattutto negli ultimi anni e, ancora di più, nei mesi più recenti. Io provo ancora del bene nei confronti di vostra madre e la considero una donna con delle qualità rare e difficilmente riscontrabili in altre persone. Ma insieme non ci prendiamo, ecco tutto, insieme diamo il peggio di noi stessi.
Non è vita quella che ultimamente abbiamo condotto stando vicini e la vita, che è una, non possiamo permetterci di sprecarla stupidamente, giorno dopo giorno. Penso che ci sia qualcosa di meglio, altrove, sia per vostra madre che per me: dev'esserci una felicità nascosta da qualche parte e che ancora non ci appartiene, ma che abbiamo in ogni caso il dovere di cercare.
Vi dedico questa poesia, che dice di amare ogni momento della vita proprio perché è destinato a finire. Fatelo anche voi, non perdete tempo a essere infelici, ma cercate sempre la vostra felicità, per il bene che dovete anzitutto a voi stessi.

In me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciare fra breve.

(Shakespeare, sonetto n. 73)

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