Quello di come mi sono rotto il braccio per la seconda volta, a sedici anni, è un racconto ricorrente. Mi capita di parlarne quando c'è la neve o se incontro una persona che porta il gesso e desidera avere uno scambio di esperienze sull'argomento 'fratture', come mi è successo qualche giorno fa.
Lo racconto anche qui, perché è curiosa non tanto la dinamica del mio incidente, ma piuttosto l'opinione e il commento, spesso unanimi, che la mia esperienza suscita.
Ebbene, dopo la mia prima frattura all'avambraccio destro, dovuta a una caduta per essere inciampato su una radice mentre giocavo a pallone su un prato, dopo due mesi e mezzo di ingessatura, dopo aver tolto il gesso un sabato di un dicembre che aveva riempito Roma di neve, domenica mattina decido di fare irrobustire il mio arto indebolito andando a sciare nel parco vicino casa mia. Scio per tutta la mattinata, su e giù per le valli innevate, e alla fine della giornata sgancio gli sci, mi tolgo gli scarponi e mi infilo i moon boot per tornare a casa. Senonché, assetato, a un certo punto mi metto a bere a una fontanella e, quando ho finito, scivolo sul ghiaccio che si è formato sul marciapiede. E...crac, mi rompo un'altra volta il braccio, e di nuovo in ospedale, di nuovo il gesso per altri due mesi e mezzo. Semplice, no? Un incidente come altri: fai una cosa e te ne capita un'altra. Punto.
Eppure, quando la gente ascolta questo racconto, di solito mi dice: "Sei stato un incosciente ad andare a sciare il giorno dopo esserti tolto il gesso", come se mi fossi fratturato mentre sciavo. Al che io rispondo: "E' vero, ma il braccio me lo sono rotto soltanto dopo aver sciato, e avrei potuto scivolare anche se fossi andato a fare una passeggiata". Ma quelli, niente, ribadiscono la propria opinione, dicendosi convinti della mia responsabilità e non c'è verso di far cambiare loro idea.
Penso che, quando parla, la maggior parte delle persone non segua il filo logico dei discorsi e, anziché giungere a delle sintesi, preferisca esprimere la propria opinione e affermare ciò che pensa, a tutti i costi, anche a quello di essere illogica. In questi individui egocentrici, a prevalere è un forte senso di autoaffermazione, anche a costo di fare la figura dei cretini.
Tutto questo discorso sulla mia rifrattura e sui giudizi nei quali secondo me non credono neanche coloro che li emettono, mentre al mio figlio più grande, facendo i compiti di storia, capita di leggere nomi sconosciuti come Ippocrate, Aristotele, Platone e Socrate. A proposito di quest'ultimo, stamattina a colazione gli ho raccontato brevemente che era un filosofo che, nell'ordine, diceva di non sapere, che prima di dialogare chiedeva al suo interlocutore cosa intendesse con le parole che usava, che preferiva i discorsi brevi a quelli lunghi, pomposi e convincenti dei sofisti, i maestri dell'arte oratoria, anche detta retorica.
Che fu condannato a morte con l'accusa di corrompere i giovani e di adorare nuove divinità ovvero di insegnare ai ragazzi a ragionare con la propria testa, ossia senza farsi convincere dagli altri acriticamente, e di dare ascolto a una insopprimibile voce interiore che semplicemente gli suggeriva di ricercare la verità.
Ora, e qui giungo alle conclusioni, dichiarasi ignoranti, chiedere "cosa vuoi dire?", non abbellire i discorsi con la retorica, pensare e mettere in discussione le idee canoniche e l'ortodossia, sono cose che non vedo da molto tempo e che mi paiono sempre più rarefatte, a dispetto dell'egocentrismo imperante, dell'onnipresenza dilagante di pensieri e persone per le quali è sufficiente fare una breve apparizione da qualche parte o dire una piccola frase, a volte anche una parola, che abbia il valore di una sentenza, per essere, per dare un senso alla propria vita.
Aprono la bocca, ergo sunt.
Che fu condannato a morte con l'accusa di corrompere i giovani e di adorare nuove divinità ovvero di insegnare ai ragazzi a ragionare con la propria testa, ossia senza farsi convincere dagli altri acriticamente, e di dare ascolto a una insopprimibile voce interiore che semplicemente gli suggeriva di ricercare la verità.
Ora, e qui giungo alle conclusioni, dichiarasi ignoranti, chiedere "cosa vuoi dire?", non abbellire i discorsi con la retorica, pensare e mettere in discussione le idee canoniche e l'ortodossia, sono cose che non vedo da molto tempo e che mi paiono sempre più rarefatte, a dispetto dell'egocentrismo imperante, dell'onnipresenza dilagante di pensieri e persone per le quali è sufficiente fare una breve apparizione da qualche parte o dire una piccola frase, a volte anche una parola, che abbia il valore di una sentenza, per essere, per dare un senso alla propria vita.
Aprono la bocca, ergo sunt.
Che bei ricordi: il primo incontro con la (storia della) filosofia e, appunto, Socrate, il suo "conosci te stesso" (qualsiasi cosa abbia mai voluto dire), la scoperta del metapensiero del fatto cioè che si può non solo pensare a qualcosa ma pensare a come pensare e un po' il rimpianto per l'amico fraterno con cui avrei dovuto iscrivermi a filosofia e invece...ecco con questo ragazzo ci capivamo al volo, a volte bastava uno sguardo, un minimo cambiamento nella postura a veicolare i nostri pensieri in uno specifico momento. Fortunati quelli che hanno fosse solo un'unica persona così accanto. Ma sto divagando. Il fatto e' che la comunicazione verbale e' francamente sopravvalutata: tutta questa smania di comunicare travalica a volte i contenuti di cui ne facciamo oggetto con l'ovvia conseguenza di aver voglia, per quanto mi riguarda, di spegnere tutto e salire sulla montagna più alta del circondario. Voglio dire: e' mai possibile ricevere messaggi aventi come oggetto l'abbigliamento dei comunicandi di turno alle 6.30 del mattino?! Ma Matteo neanche la fa la Comunione! Pero, così, per solidarietà mi hanno inserito nel gruppo. Quello di cui sento un gran mancanza, invece, son gli affabulatori perché se proprio deve andare tutto a rotoli alla "verita'"sbandierata in milllanta sgrammaticati tweet preferisco una storia ben congegnata e ben raccontata, una di quelle da rimanere senza parole per proporre domande, una cosa tipo Umberto Orsini ne "il nipote di Wittgenstein": non ci capii nulla ma rimasi affascinata nel profondo, senza parole appunto.
RispondiEliminaCaro Cristiano ti auguro di sopravvivere all'imminente Natale senza riportare danni irreparabili, ciao e a presto
P.S: sciare a Roma non credevo fosse possibile, era mica il 1985?
io non amo gli affabulatori, stento a seguirli. Preferisco chi, nell'esporre le proprie idee, è sintetico e non gli interessa soltanto convincere l'interlocutore. Soprattutto, non amo, come ho detto, chi deve a tutti i costi dire la propria e chi, per farlo, trova ogni occasione buona e, senza vergogna, mette se stesso davanti e prima di tutto.
EliminaSì, doveva essere il 1985...allora avevo 14 anni e non 16. Comunque non ero l'unico a sciare in città.