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La banalità della memoria fine a se stessa



La settimana scorsa ho partecipato, per motivi di lavoro, a due eventi per il Giorno della Memoria: il primo al Quirinale, alla presenza del presidente della Repubblica, il secondo in una scuola elementare del centro, sulle cui scalinate d'ingresso sono state poste delle pietre d'inciampo, delle targhe “per non dimenticare”.
Parterre di personalità istituzionali e delle comunità ebraiche, nella casa del capo dello Stato. Proiettati a ripetizione, su un pannello posto di fronte agli ospiti, filmati e fotografie in bianco e nero: volti senza più volto e corpi senza più corpo. Aggiungere (o sottrarre) altri aggettivi è retorica. Il primo scopo del lager, infatti, era quello di cancellare la personalità dei prigionieri fino renderli deumanizzati, senza espressione e senza anima, dunque distanti dagli ariani, sia fisicamente che emotivamente. Delle cose, ormai rotte e inutilizzabili e, in quanto tali, da gettare via come la spazzatura nel cassonetto. Senza pietà, ovviamente, perché non si è mai vista la pietà venir rivolta verso una cosa.
Molte le testimonianze toccanti, come quella della poetessa ungherese Edith Bruck: aveva 12 anni, ad Auschwitz, quando un giorno la kapò le indicò cinicamente dove trovare la mamma: “Nella colonna di fumo” che saliva dall'inceneritore del campo verso il cielo. Sua madre, le disse, era quella cosa “grassa con cui stavano facendo il sapone”.

Al secondo evento, quello dell'istituto elementare, era presente il ministro dell'Istruzione, accolto al suo arrivo dai bambini festosi e plaudenti e dai dirigenti scolastici, e la presidente della Comunità ebraica di Roma. Una veloce rassegna dei lavori sulla Shoah svolti dagli studenti, un breve concerto in tema del gruppo musicale della scuola, i discorsi di rito ai giovani da parte dei due illustri ospiti. Infine, poco prima di andar via, la scopertura delle due targhe con su scritto “La giornata della Memoria. Per non dimenticare”.
La cerimonia è finita, le personalità che vi hanno appena partecipato stanno per andare via, manca soltanto la foto di gruppo con gli studenti. Fatta anche questa, mentre il ministro sta andando via, lo avvicina un ragazzo di un liceo che sta lì vicino e che gli chiede un commento sulle politiche del Governo verso i migranti, alla luce dei discorsi sulla tolleranza e le critiche al razzismo e alla discriminazione fatti in occasione del Giorno della Memoria.
“Sono due cose diversissime”, taglia corto il ministro prima di salire in macchina e allontanarsi.

Il ricordo diretto di chi ha vissuto l'Olocausto sta per scomparire, inevitabilmente, assieme alle persone, poche per ragioni anagrafiche, che ancora possono raccontarcelo. Ma è necessario continuare a tenere viva la memoria – lo hanno ribadito tutti coloro, nessuno escluso, che hanno preso la parola – soprattutto perché una tragedia simile non si ripeta.
Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di concentramento, ha sottolineato la mancanza di pietas durante le deportazioni, la stessa che manca oggi a causa del razzismo: gli ebrei erano diversi, dinnanzi a sé trovavano frontiere chiuse e non avevano diritto d'asilo: “Navigavamo nel mare dell'indifferenza da parte di tutti, la stessa che ritrovo oggi rispetto ai migranti che cercano un attracco in Europa”.

Tenere viva la memoria non significa semplicemente ricordare un fatto, ma tenerlo presente quando esso si ripresenta. Tenere viva la memoria vuol dire riconoscere ciò che sta accadendo, proiettare il passato nel presente e nel futuro, non solo guardarsi alle spalle.
In quanto razzismo, quello di oggi è lo stesso di quello di ieri e sono la stessa cosa l'indifferenza, l'assenza di empatia, il prendere le distanze da ciò che è umano fino a renderlo cosa, oggetto verso cui non ha senso provare un sentimento. Ed è cosa lo straniero, l'impedimento di legge, la mancanza di un permesso, l'assenza di un'autorizzazione. E' cosa l'astrazione, il concetto, la razza, l'ideologia. E' cosa l'insensibilità, la cecità, l'assenza di empatia, la deumanizzazione e la conseguente disumanizzazione.

Esiste una banalità del male (Arendt), della diversità e dell'indifferenza, così come c'è una banalità nel conformismo di chi commette dei crimini e di chi ne prende, nel perpetrarli, le dovute distanze, perché “ho soltanto eseguito degli ordini” oppure “era la prassi farlo”. C'è un'assurda banalità dei ruoli e delle distinzioni: “Io ho la divisa e tu no, io sono la guardia e tu il ladro, io il buono e tu il cattivo, io sto a destra e tu a sinistra, io sono bianco e tu nero”.
E c'è anche una banalità della memoria: quella delle commemorazioni fini a se stesse, degli anniversari e dei discorsi vuoti che ne seguono.
E invece la memoria dovrebbe essere, banalmente, educazione, insegnamento affinché si ripeta il bello e, ancora una volta banalmente, non ritorni il male.

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