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Un'ora d'aria


Un'ora d'aria è la metafora perfetta. 
Il fatto che la mia passeggiata sia coincisa con un giorno di inizio maggio, con metà della primavera alle spalle, là dove adesso guardano i miei occhi, e l'altra metà davanti a me, dove i miei occhi possono invece soltanto immaginare, ha dell'assurdo: ciò che vedo, infatti, non è il presente, né tantomeno il futuro, ma il passato. È un illuso chiunque pensi di cogliere l'attimo, la realtà nel momento stesso del suo divenire, perché tutto ciò che sappiamo è già avvenuto, fosse anche un secondo prima del nostro arrivo, mentre il presente è quel punto di passaggio fra il prima e il dopo e nessuno può fermarne l'istante nel quale esso ci si para davanti. 
Ora, a dire il vero, mentre cammino, davanti agli occhi non ho uno, ma due passati: il primo è quello che mi si presenta allo sguardo, inedito, compiuto quando non c'ero, mentre ero rintanato in casa. Il secondo è quello che ho vissuto e che mi resta nella testa, il ricordo recente, quel che è avvenuto nei giorni trascorsi. Sfido chiunque ostenti, in questi giorni, la leggerezza e la spensieratezza della libertà ritrovata grazie all'allentamento del lockdown, ad ammettere di non fare, a ogni passo, un tuffo nel passato.
Improvvisamente, mi ritrovo a camminare per viali dove gli alberi sono già ricoperti di foglie, i bambini a giocare a pallone su un prato cresciuto a dismisura, il cane a rosicchiare un osso che sembra venir fuori dalla preistoria. Mi sono perso qualcosa, penso, ed è tutto un cercare di recuperare il tempo perduto, come se il tempo fosse un oggetto che non si trova più, come potrebbe essere il telecomando finito dietro al divano mentre guardavo un film alla televisione.
Il tempo, invece, ce ne dimentichiamo troppo spesso, non è tangibile, ma è una dimensione tipicamente umana e imprescindibile, che ci serve per scandire e per dare un ordine alla nostra esistenza, secondo un prima e un dopo senza i quali siamo incapaci di vivere. Talvolta, quando siamo particolarmente vigili e concentrati, anche secondo un durante.
Il tempo non è che il laccio degli uomini che non sanno essere liberi.
E dunque, il tempo non lo perdiamo, né lo ritroviamo, siamo noi, a volte, a non trovarci, a non riconoscerci in ciò che facciamo, secondo ciò che siamo o pensiamo di essere. E siamo sempre noi a cercarci, a passare la vita a rincorrere qualcosa di sfuggente di noi stessi. Sempre e soltanto noi, anche quando, in queste ricerche affannate, a prevalere è il rimpianto puerile per il tempo perduto, per le occasioni sprecate.
È strano il voler respirare quest'ora d'aria, lontani dalle mura di casa, all'aria aperta, come si dice, come se l'aria di casa fosse stata chiusa in un barattolo, mentre siamo noi, molto più spesso, a sentirci rinchiusi: non è l'aria a essere aperta, ma noi stessi a desiderare di aprirci all'aria.
Ma ce ne andiamo in giro a prendere un po' d'aria indossando una mascherina che prima non portava nessuno e che ora invece vestono tutti, quasi fosse una moda, ma è più probabile che sia un nuovo talismano, un lasciapassare col sigillo per l'immunità. E in questa nuova forma di ostentata immortalità raggiunta, ce ne andiamo in giro mostrando al prossimo una sicurezza mai conosciuta prima, visivamente amplificando presunte qualità, non nascondendo, quasi fossero anche questi qualità uniche, nemmeno i difetti. Ci diciamo e ci mostriamo orgogliosi di noi, di come siamo e di come vogliamo che anche gli altri ci vedano, non desideriamo apparire diversamente da come siamo, mentre qualsiasi ostentazione, ogni tipo di manifestazione voluta e non casuale, ha in sé la stessa natura delle cose dette, intermediate cioè da chi dà loro voce. Non la naturalezza, seppure relativa, di un oggetto trovato in terra: l'obiettività, appunto. 
Anche il nostro incedere verso un futuro che, ci promettiamo, sarà migliore del passato, in questi giorni non è che un desiderio di tornare alla realtà di ieri, a come eravamo prima che succedesse il finimondo. Ciascuno di noi si è accorto, a modo proprio, che al peggio non c'è fine e che il come eravamo è meglio di come siamo e che, peggio ancora, dobbiamo tornare a essere come eravamo prima. Il che suscita due pensieri in contraddizione fra loro: il primo, quello bello, è l'apprezzamento tardivo della semplicità e di ciò che una volta consideravamo deludente e misero, quando desideravamo altro, qualcosa di importante e di magnifico. Il secondo, quello brutto, è di non avere una vera prospettiva davanti a noi, una seppur banale idea nuova.
Un'ora d'aria: soltanto questo ho oggi, che è già tanto rispetto a ieri, ma quasi nulla se penso al domani che non so immaginare e che tanto ancora assomiglia al nostro passato.

Commenti

  1. Un'emizionante analisi introspettiva che potrebbe appartenere a ciascuno di noi, resa in modo talmente efficace, che sembra che sia chi scrive, a farci ritornare alla mente emozioni sopite e a svegliarci dal torpore dell'abitudine al peggio. Lo scorrere del tempo, più cadenzato tra ieri, oggi e domani, viene straordinariamente descritto in tutta l'incertezza in cui ci troviamo ma non è privo di un anelito alla speranza,
    quella di giorni migliori. Quando leggo i fluidi pensieri di Cristiano Camera, li leggo tutti d'un fiato, come per raggiungere un'ambita meta finale. Arriva sempre infatti. È l'emozione di scrutare nel mio animo, mentre qualcuno me lo racconta, tenendomi le mani.

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