Nessuno può davvero chiuderci in casa, girando la chiave dall'esterno. Soffriamo. E la sofferenza è l'opposto del confinamento: è una domanda sconfinata di aiuto, una richiesta smisurata di empatia, un grido talmente forte da oltrepassare ogni barriera, così ostinato da valicare qualsiasi dimensione nella quale le persone vengano rinchiuse. Siamo, tutti noi, dei crocevia, non strade chiuse e senza uscita. Per vivere, così come per respirare o anche soltanto per camminare, abbiamo il bisogno costante di una prospettiva. E' come il cibo, che non è mai fine a se stesso. E' come l'aria appena inalata e che prelude, respiro dopo respiro, a nuova aria. E' come il passo, che, per compiersi, ha costantemente bisogno di un altro punto d'appoggio lungo il suo cammino. Solamente noi, dall'interno, possiamo sprangare la porta di casa. E decidere di non nutrirci, di non respirare, di non camminare più.
La prospettiva invece se ne sta lì, testarda, piantata di fronte ai nostri occhi, ben visibile oltre il vetro della campana, a farci soffrire e sperare. E la vita non è altro che il poter guardare oltre l'ostacolo e, fintanto che riusciamo e vogliamo farlo, non c'è confinamento che tenga. Però, desidero ancora una volta sottolinearlo, il mio non è un modo ottimistico di descrivere una condizione di costrizione. Il punto che voglio mettere in rilievo è proprio il fatto che a renderci infelici è la possibilità che abbiamo di vedere ancora, e di sapere, ciò che non è presente o che non è immediatamente alla nostra portata: a farci stare male è il prolungamento della presenza nell'assenza. E' l'onda lunga di ciò che sta per sparire ma che è ancora fra di noi. Il cieco confinamento non esiste, così come non c'è vero distacco nell'allontanamento coatto. Se le cose non stessero così come sostengo, non esisterebbe neanche il dolore.
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