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Campane di vetro


Mi passano per la testa tante cose in questi giorni che precedono il secondo lockdown nel quale fra poche settimane saremo costretti a vivere. Lo dico senza paura, e anzi con il desiderio di essere smentito dai fatti, ma è la soluzione della chiusura generalizzata quella a cui stiamo per giungere, purtroppo non vedo alternative percorribili al momento. Forse non si utilizzerà più questo termine anglosassone divenuto ormai un tabù e se ne adopereranno altri più o meno edulcorati per parlarne. Fatto sta che per salvare la vita si dovrà sacrificare l'economia e la socialità, poiché senza la prima non esistono nemmeno le altre due. Però, mi domando, che vita è quella di chi è isolato? Che esistenza conduce colui che è allontanato dalle proprie relazioni ed affetti? Persiste un possibile collegamento fra la persona e il mondo esterno che vada oltre la costrizione fisica alla lontananza? 

Mi sono chiesto: è davvero confinato chi vive in una bolla? Non lo credo affatto e penso anzi che è proprio questa la causa della sua sofferenza. Non credo che potremmo mai vivere in compartimenti completamente stagni. La ragione principale è che, per quanto possano essere opprimenti e soffocanti, sono campane di vetro quelle nelle quali ci rinchiudiamo, non di bronzo e né tantomeno di piombo. E anche se siamo fisicamente isolati, riusciamo comunque a guardare oltre lo schermo che ci separa dagli altri. Al di là del cristallo, vediamo le persone che amiamo, inseguiamo i nostri ricordi, diventiamo nostalgici, fremiamo per un sogno di libertà, siamo pervasi da speranze per il futuro. Non è possibile congelare l'attesa del domani, l'aspirazione a un futuro migliore: anche se non è ancora realizzata, la possibilità è un elemento vivo ed è un seme pulsante anche quando è ricoperta di terra.  

Nessuno può davvero chiuderci in casa, girando la chiave dall'esterno. Soffriamo. E la sofferenza è l'opposto del confinamento: è una domanda sconfinata di aiuto, una richiesta smisurata di empatia, un grido talmente forte da oltrepassare ogni barriera, così ostinato da valicare qualsiasi dimensione nella quale le persone vengano rinchiuse. Siamo, tutti noi, dei crocevia, non strade chiuse e senza uscita. Per vivere, così come per respirare o anche soltanto per camminare, abbiamo il bisogno costante di una prospettiva. E' come il cibo, che non è mai fine a se stesso. E' come l'aria appena inalata e che prelude, respiro dopo respiro, a nuova aria. E' come il passo, che, per compiersi, ha costantemente bisogno di un altro punto d'appoggio lungo il suo cammino. Solamente noi, dall'interno, possiamo sprangare la porta di casa. E decidere di non nutrirci, di non respirare, di non camminare più.

La prospettiva invece se ne sta lì, testarda, piantata di fronte ai nostri occhi, ben visibile oltre il vetro della campana, a farci soffrire e sperare. E la vita non è altro che il poter guardare oltre l'ostacolo e, fintanto che riusciamo e vogliamo farlo, non c'è confinamento che tenga. Però, desidero ancora una volta sottolinearlo, il mio non è un modo ottimistico di descrivere una condizione di costrizione. Il punto che voglio mettere in rilievo è proprio il fatto che a renderci infelici è la possibilità che abbiamo di vedere ancora, e di sapere, ciò che non è presente o che non è immediatamente alla nostra portata: a farci stare male è il prolungamento della presenza nell'assenza. E' l'onda lunga di ciò che sta per sparire ma che è ancora fra di noi. Il cieco confinamento non esiste, così come non c'è vero distacco nell'allontanamento coatto. Se le cose non stessero così come sostengo, non esisterebbe neanche il dolore. 

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