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Coccole e ponti

Un paio di settimane fa, ancora in cerca di spiegazioni per alcune vicende appena trascorse e con la voglia di completare un ritratto che sentivo soltanto come abbozzato, ho deciso di leggere, senza troppa convinzione, Alla ricerca delle coccole perdute dello psicologo Giulio Cesare Giacobbe. L'idea al centro del libro, nonché la tesi dell'autore, è che nella vita di ogni persona sono presenti tre fasi: quella del bambino, quella dell'adulto e quella del genitore. Il primo è bisognoso di coccole, di cibo, di cure, di protezione e di conforto. E' un egoista che piange e pretende che gli sia data qualsiasi cosa comandi. Non domina il proprio territorio, né le proprie paure. L'adulto è colui che non ha bisogno di nessuno, basta a se stesso, non chiede e non dà, semmai prende, perfino dagli amici, se vuole, altrimenti sta benissimo da solo. Non gli servono coccole per sentirsi bene. E' autosufficiente, autoaffermato, individualista e sfruttatore, sa dominare il proprio territorio e le proprie paure. Il genitore, infine, è colui che coccola, i figli così come anche altre persone, curandole e rispondendo ai loro bisogni, proteggendo il loro territorio.

Questi tre momenti sono presenti, distintamente, nelle fasi della vita dell'uomo e ciascuno di essi precede l'altro e ne costituisce il presupposto per la realizzazione del successivo. E così, per essere tale, un adulto dev'essere stato un bambino, mentre un genitore, prima di diventarlo, deve aver passato la fase dell'adulto. Ora, da parte mia, sarebbe semplicistico entrare nel merito di suddivisioni a prima vista troppo schematiche e nette, osservando che il bambino non sempre è un egoista insensibile, ma che è capace anche di dare, di essere generoso ad esempio verso il fratello. E dire che anche l'adulto ha bisogno di conforto e soffre di solitudine e che il genitore, a sua volta, è un bambino quando domanda l'affetto da parte del prossimo. Ma è chiaro che, nel momento in cui il bambino è generoso, egli è in qualche modo genitore, così come lo è l'adulto che si prende cura di qualcun altro. E bambini sono l'adulto e il genitore bisognosi di conforto e d'affetto. Di volta in volta, a seconda dei casi, un adulto o un genitore possono anche essere bambini e un bambino essere talvolta un genitore o un adulto e via dicendo.

Bambino, adulto e genitore sono categorie della personalità, non persone distinte, ma modalità all'interno di uno stesso individuo, modi di essere e di porsi che, quando si adattano all'ambiente e alle relazioni specifiche, sono in equilibrio fra loro. Il problema vero, secondo Giacobbe, fuoriesce quando uno di questi aspetti prevale sull'altro, quando cioè la persona si focalizza esclusivamente su uno soltanto di essi, senza considerare né relazioni e né ambiente. Senza che mi addentri ulteriormente in un ambito nel quale hanno origine le nevrosi del bambino, quelle dell'adulto e quelle del genitore, preferisco restare nel territorio dell'equilibrio fra queste personalità. E sottolineare che di questo libro mi sono piaciute due definizioni, quella dell'essere innamorati e quella dell'amare: si tratta di due sentimenti contrapposti, dove il primo è la richiesta e la pretesa egoistica (infantile) di chiedere attenzioni, di considerare se stessi il centro della relazione. Il secondo, invece, è definito come identificazione e compassione. È il tipo di amore che ho sempre privilegiato, quello nel quale ci si rispecchia nell'altro e si fanno proprie le necessità ed esigenze di chi si ama. È quel sentimento, l'ho già detto altrove, di cui si parla anche nell'Insostenibile leggerezza dell'essere e che corrisponde, dopotutto, all'amore del genitore. Quella compassione che è alchimia fra il piacevole e il doloroso. È l'empatia, in una parola, il rispecchiarsi e l'identificarsi con l'altro, il co-sentimento ovvero il sentire ciò che l'altro sente. 

Detto questo, arrivo a introdurre un film visto qualche giorno fa e il romanzo che ho letto subito dopo e da cui il film stesso è tratto: sto parlando de' I ponti di Madison County, pellicola del 1995 con Meryl Streep e Clint Eastwood, che ricalca fedelmente la storia narrata nel libro di Robert James Waller. E' il racconto non solo di un amore impossibile e disperato che molti ricorderanno, ma anche di una gestione (termine orrendo!) matura di questo sentimento struggente da parte dei protagonisti, che mostrano, entrambi, di essere dotati di una personalità straordinariamente equilibrata, nel senso delineato da Giacobbe, perfino difronte a un amore drammatico. Senza che, anche qui, mi addentri nella trama della storia, Francesca Johnson e Robert Kincaid sono di volta in volta, a seconda dei momenti che vivono insieme, l'uno rispetto all'altra, bambini, adulti e genitori. Provano e mostrano, l'uno all'altra, il reciproco bisogno di essere amati, dimostrano la rispettiva volontà e capacità di amare e di dare, sanno prendere le distanze fra di loro nel momento in cui capiscono che il loro amore, per ragioni contingenti, non può avere futuro, sebbene resterà sempre vivo nella loro memoria per tutto il resto della loro vita, anche se vivranno la propria esistenza "con il cuore impolverato". E sono soprattutto empatici, si comprendono, capiscono le rispettive ragioni, si rispecchiano e si identificano, fanno proprie le reciproche  necessità: il sentimento dell'uno non è che il sentimento dell'altro.

Ora, so bene quanto sia raro un amore simile. Di certo, sono più frequenti le nevrosi infantili e degli adulti e quelle dei genitori. Per arrivare al grado di consapevolezza di Francesca e Robert, è necessario "capire la magia", proprio come loro sapevano fare, e sentirsi, entrambi, "dentro a un altro essere che avevano creato e che si chiama 'noi'".

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