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Il contadino e il cacciatore: due idee di individualismo

Tu mi chiedi perché mai io passi la vita a scrivere.
Lo trovo forse un divertimento?
Ne vale la pena?
Ma, soprattutto, è ben pagato?
Altrimenti, quale sarebbe il motivo?...
Io scrivo solo perché 
c'è una voce in me 
che non vuol tacere.

Sylvia Plath scrisse questa lettera in versi all'età di sedici anni. Mi ritrovo nelle stesse ragioni della poetessa americana: anch'io scrivo perché non so tacere. E non so tacere perché per me scrivere è una terapia, mi serve a chiarirmi le idee, a sviluppare dei ragionamenti, a dare un senso, che altrimenti mi sfuggirebbe, alla realtà. 
Non si tratta mai di riprendere una discussione. Per me, scrivere è spiegare, prima di tutto a me stesso.

Ciò premesso...
 
...Il fatto che l'argomento sia di per sé un paradosso mi ha fatto impiegare più tempo del dovuto per metabolizzarlo. Una delle mie debolezze è quella di partire sempre da una presunzione di onestà intellettuale per chi mi parla, da un approccio il più possibile obiettivo. Non penso mai a un'intenzione tendenziosa da parte degli altri.
E' forse a causa di questo spirito, incapace di vedere la malafede nel prossimo, che tendo a difendermi anche dalle accuse più fantasiose, quando invece dovrei soprassedere, lasciar correre: se non ci sono fondamenti - mi dovrei dire - di cosa vuoi discutere? E invece ne parlo, qualcosa di vero - penso - dovrà pur esserci. Dunque, cerchiamo insieme di capire. Senonché, questo tipo di discorsi senza presupposto si rivelano il più delle volte per quello che sono: tempo inutilmente sprecato.
Il problema, come ho detto, è la fiducia che ripongo nell'altrui ragionevolezza, mentre invece, a volte, di obiettività e di sincerità ce n'è ben poca, quando a prevalere, se va bene, è l'egocentrismo e, nella peggiore delle ipotesi, il tentativo di voler omologare gli altri a se stessi, attribuendo al prossimo i propri difetti: abbassare il livello generale per emergere, per essere il meno peggio o il migliore dei peggiori.   
Ma vado al sodo e racconto anche questa. 
Qualche tempo fa sono stato incolpato di "non essere un individualista". Per i motivi che ho appena spiegato, non ho pensato subito al paradosso di questa accusa: il contrario di 'individualismo' è 'altruismo' - mi sarei dovuto dire - Invece, non ho capito immediatamente che venivo accusato per qualcosa che non era una colpa, ma un merito e dunque, anziché tralasciare un'obiezione simile, ho voluto cercare un qualche aspetto negativo in una qualità che ritenevo positiva. 
Qual è la colpa di non essere individualisti - mi sono chiesto - Quella forse di non rispettare se stessi oppure quella di non mettere davanti a tutto e a tutti la propria persona, prima io e poi gli altri, invece di ascoltare i bisogni del prossimo e farsi carico delle proprie responsabilità? 
Alla prima domanda che mi sono fatto, ho risposto che anche il più disinteressato dei comportamenti è fondamentalmente egoistico, dato che anzitutto parte da noi, dalla nostra volontà e realizza un nostro desiderio. In questo senso potrei essere individualista perfino compiendo un'azione altruistica. Ad esempio, potrei regalare dei soldi a un mendicante per strada e apparentemente si tratterebbe di un'azione disinteressata. Ma chi ha detto che io non abbia fatto l'elemosina soltanto allo scopo di appagare un mio bisogno di generosità? In questo caso - ho concesso - sarei stato tutt'altro che altruista. In conclusione, io mi ritengo un individualista nel momento in cui rispetto me stesso e il mio altruismo.
Il secondo aspetto dell'individualismo, invece, non mi appartiene. E' quanto di più lontano da me possa esistere, e qui lo voglio sottolineare con forza: non sono uno che mette se stesso davanti a tutti, che schiaccia il prossimo per affermarsi, che pensa di avere maggiori diritti degli altri e che crede di essere il migliore. Ma parto da un'idea di rispetto e di uguaglianza con gli altri. Pensare questo, vivere in tal modo, non è una colpa, ma è un merito che, senza presunzione, mi attribuisco, dal momento che tendo a mettermi continuamente in discussione e sono pronto a cambiare idea su tutto, se qualcuno mi convince che ho torto. 
"Mi ritengo un contadino piuttosto che un cacciatore", ho spiegato al mio amico: "Sono uno che coltiva il proprio campo in qualsiasi stagione dell'anno, in ogni condizione meteorologica. E, se i frutti non arrivano, non mi arrendo, persevero, ricerco nuove soluzioni. Se proprio non riesco, cambio coltura, ma non abbandono mai il mio campo".
Allo stesso modo, coltivare se stessi significa essere individualisti, ma nella prima accezione, quella positiva del termine. Al contrario, la peggiore forma dell'individualismo io la intravedo nella mentalità tipica del cacciatore, ovvero di colui che cambia continuamente il proprio terreno di caccia alla ricerca di nuove opportunità. Questo tipo di individualista è l'opportunista per antonomasia, colui che sfrutta le risorse e che prende dagli altri. Si dice che l'occasione fa l'uomo ladro. Ebbene, l'individualista opportunista è già un ladro in partenza e la sua vita è focalizzata nella ricerca di nuove occasioni per rubare. Il contadino invece ricava i frutti dal proprio lavoro, ha il pregio della pazienza, sa attendere che le proprie piante fruttifichino. 
Termino dicendo che è tipico dell'individualista considerare individualisti anche gli altri, così come è proprio del cacciatore, e dell'opportunista, prendere allo scopo di sottrarre al prossimo: il ragionamento innato che lo anima è tipicamente quello secondo cui "se non prendo io, prenderà qualcun altro. Dunque prima io e poi, se rimane qualcosa, ma ne dubito, anche gli altri".  
"Mors tua vita mea", dice il cacciatore. Mi dispiace molto, ma questo tipo di mentalità non solo non mi appartiene, ma è distante anni luce sia dal contadino che da me.

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