..."E invece, questo disegno incompleto è il ritratto stesso della mia incompletezza"...
Molto tempo fa, sul finire degli anni '90, feci uno dei miei primi viaggi di lavoro. Andai a Milano, dove rimasi per tre giorni a seguire un congresso politico talmente estenuante, che la sera non mi restava alcuna voglia di andarmene in giro per la città, che a settembre riempiva vie e piazze di gente allegra. Volevo soltanto ritornare in albergo a fare una doccia, sdraiarmi sul letto e, al massimo, sentire qualcuno al telefono.
Era un hotel vicino alla stazione e non lontano dall'auditorium dove si svolgevano i lavori di un partito già in via di estinzione. Il mobilio e la tappezzeria conservavano un'antica ambizione d'eleganza, ma mi apparivano inesorabilmente decadenti. Ricordo la moquette rosso bordeaux, alcune poltrone di pelle ocra dai braccioli consumati, un letto alla francese con un materasso sproporzionatamente alto, rivestito da un copriletto di raso verde inglese, i comodini di legno laminati di radica lucida, rigonfia in alcuni punti, due abat jour di ferro verniciato, che si accendevano tirando una catenella anch'essa di metallo.
Prima di entrare in camera da letto, ritiravo alla reception le chiavi, attaccate a un grosso numero in ottone: me le porgeva la proprietaria dell'albergo, dopo averle prese da uno scaffale di legno appeso al muro alle sue spalle. La signora, che all'epoca avrà avuto una cinquantina d'anni, era una donna di bella presenza e affabile, a cui piaceva intrattenersi con gli ospiti conversando del più e del meno, nel sottofondo di una radio sempre accesa. E io trovavo gradevole scambiare con lei due parole su argomenti occasionali, sia prima di andare a dormire che la mattina dopo a colazione. Mi metteva di buon umore la sua cortesia e il suo voler riempire gli ospiti di attenzioni.
Durante il mio soggiorno, fra una chiacchierata e l'altra con la signora, avevo osservato in più di un'occasione il suo gesto di voltarsi per prendere e per rimettere a posto le chiavi e ogni volta avevo notato i suoi occhi scuri e profondi soffermarsi per alcuni, impercettibili istanti, sul quadro a olio sulla parete accanto allo scaffale.
Era un hotel vicino alla stazione e non lontano dall'auditorium dove si svolgevano i lavori di un partito già in via di estinzione. Il mobilio e la tappezzeria conservavano un'antica ambizione d'eleganza, ma mi apparivano inesorabilmente decadenti. Ricordo la moquette rosso bordeaux, alcune poltrone di pelle ocra dai braccioli consumati, un letto alla francese con un materasso sproporzionatamente alto, rivestito da un copriletto di raso verde inglese, i comodini di legno laminati di radica lucida, rigonfia in alcuni punti, due abat jour di ferro verniciato, che si accendevano tirando una catenella anch'essa di metallo.
Prima di entrare in camera da letto, ritiravo alla reception le chiavi, attaccate a un grosso numero in ottone: me le porgeva la proprietaria dell'albergo, dopo averle prese da uno scaffale di legno appeso al muro alle sue spalle. La signora, che all'epoca avrà avuto una cinquantina d'anni, era una donna di bella presenza e affabile, a cui piaceva intrattenersi con gli ospiti conversando del più e del meno, nel sottofondo di una radio sempre accesa. E io trovavo gradevole scambiare con lei due parole su argomenti occasionali, sia prima di andare a dormire che la mattina dopo a colazione. Mi metteva di buon umore la sua cortesia e il suo voler riempire gli ospiti di attenzioni.
Durante il mio soggiorno, fra una chiacchierata e l'altra con la signora, avevo osservato in più di un'occasione il suo gesto di voltarsi per prendere e per rimettere a posto le chiavi e ogni volta avevo notato i suoi occhi scuri e profondi soffermarsi per alcuni, impercettibili istanti, sul quadro a olio sulla parete accanto allo scaffale.
Raffigurava una donna in abito da sposa bianco, il viso sorridente e luminoso rivolto verso il pittore, i capelli neri mossi dal vento. La persona ritratta occupava la parte a destra della tela, mentre quella a sinistra era inspiegabilmente vuota: c'era una macchia vagamente ovale affianco alla sposa, il colore dello sfondo sfumava nello spazio in cui un tempo doveva essere stato raffigurato qualcos'altro, che però adesso era scomparso. A guardarla senza nemmeno troppa attenzione, si intuiva facilmente che cosa quella macchia celasse.
Me ne diede immediata conferma la stessa proprietaria dell'albergo, quando si accorse dell'interesse prolungato con il quale osservavo il suo quadro. "Sono io quella sposa", mi disse con disinvoltura, "e chi manca è mio marito. L'ho fatto cancellare dopo esserci separati. E' rimasta una macchia, ma non mi importa, non mi andava di gettare un bel ritratto per una cancellatura non venuta perfettamente".
"E' vero", mi dissi, "era un bel ritratto", la rappresentazione di un momento felice che non aveva alcun senso dimenticare: gli istanti come questi sono pochi nella vita di ciascuno di noi e, quando vengono fermati, in un quadro così come in una fotografia, bisogna conservarli e averne ancora cura.
"E' vero", mi dissi, "era un bel ritratto", la rappresentazione di un momento felice che non aveva alcun senso dimenticare: gli istanti come questi sono pochi nella vita di ciascuno di noi e, quando vengono fermati, in un quadro così come in una fotografia, bisogna conservarli e averne ancora cura.
"Ma", mi chiesi subito dopo, "che felicità poteva essere quella alla quale una parte stessa di essa era stata rimossa? Può mai esistere una felicità dimezzata?".
Pur non conoscendo la domanda che mi ponevo, la sposa mi diede ugualmente una risposta: "Dopo la separazione, ho capito che dovevo cercare di essere autonoma, di non fare affidamento su nessun altro se non su me stessa, che avrei dovuto trovare in me la mia completezza".
Sul momento pensai che avesse ragione, che la felicità è tale quando non abbiamo bisogno di nessuno. "Beata lei", mi dissi sinceramente, "se riesce a essere felice avendo trovato la propria indipendenza e integrità, facendo a meno di chiunque altro. E' ammirevole il poter raggiungere un simile traguardo, una tale consapevolezza".
Rivolsi di nuovo a me stesso queste parole anche la mattina che lasciai l'albergo per tornare a Roma, mentre osservavo per l'ultima volta il ritratto della sposa e la macchia rimasta al posto del marito: quella sfumatura, pensai tuttavia, "non è una parte mancante nel quadro, ma è il ritratto di un'assenza. Quella macchia è il ricordo costante di qualcuno, non la sua dimenticanza: è una presenza, non un'assenza".
Rivolsi di nuovo a me stesso queste parole anche la mattina che lasciai l'albergo per tornare a Roma, mentre osservavo per l'ultima volta il ritratto della sposa e la macchia rimasta al posto del marito: quella sfumatura, pensai tuttavia, "non è una parte mancante nel quadro, ma è il ritratto di un'assenza. Quella macchia è il ricordo costante di qualcuno, non la sua dimenticanza: è una presenza, non un'assenza".
Nel momento stesso in cui la porta dell'hotel si chiudeva alle mie spalle, la radio della reception trasmetteva 'La canzone dell'amore perduto' di Fabrizio De Andrè.
Mi incamminai verso la stazione. Nella mia testa riecheggiavano i versi "E quando ti troverai in mano / quei fiori appassiti al sole / di un aprile ormai lontano, / li rimpiangerai"...
Sono tornato nell'albergo di Milano lo scorso settembre, ancora per ragioni di lavoro, ma questa volta per una notte soltanto. Ho ritrovato tutto come lo avevo lasciato vent'anni prima: lo stesso mobilio, l'identica bacheca con le chiavi, il ritratto con la sposa è ancora al suo posto e anche la proprietaria, sempre dietro al banco della reception.
Ci siamo salutati e all'inizio non mi ha riconosciuto, gli anni ci hanno cambiati entrambi. Si è ricordata di me soltanto quando le ho chiesto del quadro e ha subito voluto riprendere il discorso, come se lo avessimo interrotto la sera precedente.
Prima di incominciare ha spento la radio, che anche in quell'occasione era accesa. La voce sempre ferma, ma più calma e riflessiva di come la ricordassi, mi ha fatto osservare i colori impressi sulla tela: "Adesso sono più tenui", ha detto solennemente, "più pallidi: sono evanescenti, paiono degradare verso il bianco del vestito della sposa, fondersi con esso", ha aggiunto parlando con distacco, quasi non fosse più lei la persona raffigurata. "Il tratto è sempre meno distinguibile, va scomparendo. Invece, la macchia si è ingrandita, sembra stia prendendo forma, adesso i suoi contorni tendono a essere delineati, non sfumano e non si confondono più con lo sfondo del paesaggio".
"E' il vuoto che è sempre più visibile e presente", mi ha confessato con grande lucidità la propria presa di coscienza. "Negli anni, ho cercato di riempire la parte mancante nel ritratto con persone, pensieri e infine con i ricordi. Quella mancanza mi ha cercata e inseguita per tutta la vita e io non ho fatto altro che rispondere alla sua chiamata, tentando di occuparla, scambiando persone e affetti con chi desideravo cancellare. Volevo ne prendessero il posto, li ho sostituiti continuamente, nella convinzione che ogni cosa è interscambiabile, che un uomo vale l'altro, che fra un amore e un altro non c'è differenza, che in ogni caso sarei bastata a me stessa, che da sola sarei stata completa".
"E invece, questo disegno incompleto è il ritratto stesso della mia incompletezza", ha concluso, parlando ancora con freddezza e guardando per l'ultima volta il quadro: "Ora c'è questo vuoto dai contorni netti e distinguibili. E che conquista sempre più spazio e prende forma. Mentre la sposa affianco svanisce, il suo sorriso non si riconosce e io non lo ricordo nemmeno più".
Un racconto scritto mirabilmente dall’eccellente Cristiano Camera, con emozioni che avvolgono e fanno riflettere. Ognuno tuttavia, ha una storia diversa da raccontare e da raccontarsi, che si modifica continuamente a seconda dei condizionamenti ambientali e sociali che attingono la persona stessa. Guardarsi indietro però, specie quando il passato ci ha fatti soffrire, o imporsi di non guardare, sono espedienti che presentano il conto. Sempre.
RispondiElimina