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Erano i capei d'oro a l'aura sparsi...

 'Erano i capei d'oro a l'aura sparsi...': basta soltanto questo primo verso del sonetto di Petrarca ed è sufficiente l'imperfetto del verbo essere per proiettarci in un tempo distante, ormai lontano, celeste soltanto nella memoria e oggi più che mai caduco, come qualsiasi cosa terrena, sia essa perfino la donna amata.
Basta questo tempo remoto e imprecisato a staccare il ricordo di 'uno spirito angelico' dalla realtà di oggi, dove la vecchiaia ha il sopravvento e all'amore... non resta che essere terreno.

Mio figlio domani ha una verifica di letteratura a scuola e mi ha voluto ripetere ciò che aveva studiato dell'autore de Canzoniere. Il componimento numero 90 da lui citato ha suscitato in me vaghi e lontani ricordi e molte suggestioni, che ben presto hanno abbandonato il poeta del dubbio per riferirsi esclusivamente a lui.
E così, com'è già capitato in altre occasioni, di punto in bianco me lo sono ritrovato ancora una volta già grande, più di quanto ricordassi che fosse. Strano per un genitore che vive con il proprio figlio e che quindi lo vede crescere giorno dopo giorno? Niente affatto: mi accorgo dei cambiamenti, li annoto mentalmente, ma poi entrano automaticamente a far parte di ciò che viene considerata un'evoluzione naturale e quindi non c'è quasi mai necessità di farne menzione.
Tuttavia, oggi è diverso e qui entra in gioco Petrarca: parlandomi della sua concezione dell'amore, anche contrapponendola all'ideale della donna-angelo che ne aveva Dante, mio figlio menziona concetti come la bellezza esteriore che è destinata a sfiorire e cita la figura di una donna, Laura, che ha negli occhi, non più luminosi, i segni del tempo, e un amore che nel poeta resta comunque tale.
Si tratta di conclusioni a cui si giunge con gli anni, semmai ci si riesca in tutta una vita, e non riesco a non stupirmi per quella che invece mi sembra una sua già presente consapevolezza. 
L'amore immerso nella realtà dell'esistenza e persistente nel passaggio del tempo, e che tocca con mano il cambiamento e perfino il degrado - mi dico - è una concezione che non dovrebbe nemmeno sfiorare la mente di un sedicenne, perché è qualcosa che si impara e che si matura con l'esperienza. Invece - penso - lui deve averla fatta in qualche modo già sua.
E allora per un momento mi approprio dei suoi occhi e rivolgo il suo sguardo a me stesso, e alla madre e al fratello e al nostro cane e alla sua fidanzata e a chiunque gli faccia piacere indirizzarlo. E improvvisamente mi rendo conto che è la paura di perdere chi si ama a unirci in un abbraccio che non è altro se non l'ultimo tentativo di non lasciarci scappare via. 
La poesia che mio figlio mi ha insegnato stasera è la magia di trattenere in un pugno la polvere di cui siamo fatti.   

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