"Forza, che ce la facciamo anche oggi". Dico così, quando lo incrocio, a un mio conoscente che incontro spesso al parco, commentando il caldo che questo pomeriggio colpisce sia noi che i nostri cani, tutti i giorni a passeggio su prati ormai arsi dal sole. Lui mi risponde con un consiglio, quello di portare, quando ho tempo, Spot al lago, in un posto allestito per i cani, dove può fare il bagno. Al che gli confesso le mie resistenze riguardo i laghi, gli dico che li trovo luoghi con poca ventilazione, perché spesso sorgono all'interno di una conca, a volte, come quelli vicino Roma, nel cratere di un vulcano spento. "E poi - aggiungo - non mi piacciono i posti cinocentrici, dove tutto ruota attorno al nostro amico a quattro zampe, e dunque non c'è spazio per le persone, almeno per quelle intenzionate a rilassarsi e a godere un po' del fresco anche loro".
Obietta che il lago di cui mi sta parlando "è ventilato, si sta bene, meglio che al mare". Gli spiego a questo punto il problema che Spot ha anche con il mare, dove non tollera la presenza di alcun essere vivente che faccia il bagno. Il suo istinto, infatti, gli suggerisce di andare da qualsivoglia bagnante e toglierlo da quello che giudica indiscriminatamente un pericolo. Il mare, l'acqua, sono un rischio intollerabile per il mio cane, e allora guai a chi si immerge: deve subito uscire, "sennò - dice a se stesso, perché gli altri non lo sentono - ti vengo a prendere io"... E lo fa.
E così, racconto al mio amico di quell'episodio di tanti anni fa, quando, a Pasqua, Spot si lanciò in mare per andare a "salvare" un signore americano che, approfittando della giornata particolarmente calda, si stava tranquillamente godendo il primo bagno dell'anno. Quando, poco prima, mi accorsi che questo bagnante stava per tuffarsi, gli chiesi di aspettare un momento, fino a quando riuscissi a prendere Spot al guinzaglio. Non mi diede retta e si gettò in acqua, seguito subito dopo dal mio cane, che, non appena sentì lo splash che il nuotatore fece nell'acqua, si fiondò in mare in un inseguimento forsennato. Lo raggiunse in un attimo, lo stesso che gli servì per piazzare sulla schiena dello sfortunato nuotatore quattro lunghi graffi paralleli non intenzionali e che corrispondevano alle unghie della sua zampa anteriore destra.
Preso da un giustificabile spavento, lo sprovveduto nuotatore si diede alla fuga, tornò indietro verso la riva, con il cane che non gli dava tregua sempre ai calcagni, raggiunse un punto dove con i piedi poteva toccare il fondale e finalmente uscì dall'acqua. Aveva le gambe sanguinanti, dopo aver urtato contro alcuni scogli di cui, a causa dell'agitazione, non si era avveduto. Spot si era piazzato alla sua sinistra, attaccato al suo fianco, immobile, fiero del suo salvataggio, lo controllava a vista assicurandosi che all'uomo non venisse in mente la tentazione di un altro tuffo. Gli andai in contro, gli chiesi se volesse che chiamassi un'ambulanza, insomma, feci di tutto per aiutarlo, riconoscendo che la colpa dell'accaduto era solo del proprietario (ovvero io) di quel cane che, invece di salvare, come avrebbe voluto (ma non ne era per niente capace), annegava le persone. Invece se ne andò via senza commentare, mentre al suo posto furono dei ragazzi che avevano assistito alla scena a insultarmi. Ma tutto finì per fortuna senza conseguenze, né per il nuotatore e né per me, il vero responsabile di una tragedia soltanto per un caso appena sfiorata.
Ciò che volevo dire raccontando questa storia è che io non ho mai pensato, giustificando le sue nobili intenzioni, che Spot facesse bene a comportarsi in questo modo, né sono riuscito negli anni a convincerlo a mutare comportamento. E che a quel punto ho cambiato quello che si può definire il sistema o l'ambiente, o il contesto: semplicemente non l'ho più portato al mare. Perché la sua natura non si può cambiare: come ho detto, lui si arroga il diritto di decretare che nessun essere terrestre può fare il bagno. E, se per caso lo fa, deve andare a prenderlo e trascinarlo a riva. E se lo trattengo al guinzaglio, urla e protesta per tutto il giorno, vedendo che, davanti a lui, orde di bagnanti spensierati affrontano serenamente la morte.
Ora, parlando delle persone, per le quali le cose sono senza dubbio più complicate ed è dunque difficile per esse cercare di cambiare vita o soltanto le situazioni che possono risultare spiacevoli, mi chiedo: è un male o un bene non modificare la propria natura, anche quando riconosciamo che sarebbe meglio farlo? Nessuno può rispondere veramente a questa domanda. Oppure, si può rispondere come si vuole: c'è chi la cambia, chi decide di combattere contro se stesso, chi si impegna tutta la vita per migliorarsi e chi invece non rinuncia ad assecondarsi, perché magari si piace così com'è. Non vogliamo metterci in discussione? Non facciamolo. Quando riconosciamo o ci accorgiamo di uno sbaglio, infatti, il vero torto non è decidere se restare fedeli a noi stessi o cambiare, ché va bene ed è legittima sia l'una che l'altra scelta. Il vero errore, invece, ed è la cosa più importante da non fare, è quello di prendersi in giro, cercando di passare come qualcuno diverso da noi, prendendo per qualità i nostri difetti.
Spesso sappiamo di aver sbagliato, ma è preferibile continuare a nuotare, il viso immerso nell'acqua, gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Meglio se non ce lo diciamo e che continuiamo a mentire, ché prima o poi saranno gli altri a pensare di essere in errore. Meglio, insomma, salvare la faccia e ottenere la considerazione del nostro piccolo pubblico, di cui facciamo parte anche noi (anzi, per la verità siamo esattamente spettatori in prima fila difronte al film della nostra vita), e illuderci sempre e in ogni caso di essere dei vincenti e che abbiamo costantemente ragione. Dal mio punto di vista, tutte queste giustificazioni non sono altro che magre consolazioni. Anche perché, infondo infondo, ci conosciamo bene. E, per davvero, comportandoci in questo modo, ci facciamo un torto enorme, dato che dovremmo vivere in maniera trasparente e leale nei confronti degli altri ma principalmente e perlomeno nostri. E, invece di raccontarci la verità, troppo spesso, finiamo per ingannare il prossimo ma per primi noi stessi.
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