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I morti ci guardano: sono stelle i loro occhi

"I morti ci guardano: sono stelle i loro occhi". Mi disse proprio questa frase, molto tempo fa, una mia nipotina che allora aveva appena tre anni. Lo fece mentre osservavamo dal giardino di casa sua un cielo scuro, punteggiato da una miriade di astri bianchi. Era proprio così quel cielo: nero e chiazzato, non illuminato da quelle stelle che non disperdevano sprecandola la loro luce nell'universo, ma che invece ne proiettavano i raggi dritti, come un dono di luce, esclusivamente verso gli occhi di chi le guardava. Era estate, una calda sera del sud, ma le parole della bambina mi gelarono il sangue. Che poteva saperne lei, alla sua età, della morte? Chi mai le aveva fatto il racconto che mi aveva appena riferito?
Sono passati almeno quindici anni da allora e da quando a Dodokko leggo le favole ho sempre sorvolato sul sostantivo "morte". Ultimamente però non censurò più e se nel libro c'è scritto che "la strega cadde dalla rupe e morì", gli dico tutta la frase, senza ometterne la seconda parte. 
Venerdì scorso ho regalato a mio figlio il dvd con il cartone animato di Rapunzel, una storia a cui si è subito affezionato e che nel giro di pochi giorni ha rivisto svariate volte. A un certo punto del racconto c'è la scena in cui la finta madre della ragazzina precipita dalla torre e, in quel preciso momento, Dodokko non evita mai di sottolineare l'istante in cui il corpo della donna tocca il suolo con la frase: "E' morta".
Ora, dire la parola "morte" o il verbo "morire" con spassionata ingenuità è una cosa. Ripeterle metodicamente, direi quasi con insistenza, sottolinearla alla prima occasione è tutta un'altra faccenda. Mio figlio non mi ha ancora chiesto di spiegargli il significato di quel termine e so che quando lo farà mi troverà impreparato e che gli risponderò con una bugia. Non gli dirò che morire vuol dire "addormentarsi per sempre", perché potrebbe preoccuparsi andando a letto e pensare di non svegliarsi più. Gli dirò invece che morire significa "andarsene", anche se poi lui - ne sono sicuro - mi chiederà dove.
E a quel punto gli dirò anch'io: "In cielo, fra le stelle", sperando poi che non mi faccia mai una domanda tipo: "E quando tornano quelli che sono morti?", perché mi metterebbe in seria difficoltà. A quel punto dovrei confessargli la verità, dirgli che a volte chi se ne va non torna più. E forse farei anche a lui il racconto della mia nipotina, che "le persone morte e alle quali abbiamo voluto bene sono andate in cielo, ma ci restano vicine e ci guardano, con i loro occhi stellati, dal fondo di qualsiasi cielo nero". 

Commenti

  1. A me hanno sempre raccontato che le persone "salgono in cielo" e che da lì "ci guardano", e anche se con gli anni ho dovuto familiarizzare con l'idea più, diciamo, medica, della faccenda, mi è sempre rimasta quest'immagine.
    non solo, in fondo ci credo.
    che male fa, anche a noi adulti, crederci? perchè mai sforzarci a tutti i costi di fare i conti col brutto, il freddo, l'idea del non-ritorno?

    per fortuna abbiamo i nostri figli, perchè ci fanno partecipare di nuovo di tutto quel bello che avevamo dimenticato.

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  2. Ho raccontato a mio figlio che il nonno è volato in cielo, assieme agli angioletti, è diventato magico. Mi ha risposto che voleva andarci anche lui, e così ho dovuto spiegargli che quando si va in cielo poi non si può tornare più indietro, chissà se avrà capito.

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