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Conchiglie

Il mare si è ritirato e adesso è lontano. Sulla sabbia restano i gusci vuoti di conchiglie che un tempo erano vive.  Le nostre impronte hanno fatto il giro del mondo, ma la loro comparsa è stata breve, non ci sono più, fanno parte di ieri. Fra poco qualcun altro calpesterà lo stesso suolo, farà solchi più profondi, che non dureranno a lungo. Non c'è ritorno che assomigli a un altro, perché noi stessi mai siamo quelli di prima. Ho lasciato una felicità per trovarne un'altra. Ho scambiato assenze con altrettante assenze. Ho trovato sorrisi che un attimo dopo ho perduto.  Il sole illumina i nostri corpi, li rende materia. Ma proietta anche il buio, oltre le nostre spalle. Ombra a volte più concreta della materia stessa. Viviamo fra la luce e l'oscurità, ma anche quest'ultima è bella, perché rassomiglia incredibilmente alla marea e alle conchiglie senza più forze.  Respiriamo perché qualcuno ci rende vivi.  Siamo gusci abbandonati sulla spiaggia, nell'

Ho davanti agli occhi il colore dell'estate

Ho davanti agli occhi il colore dell'estate, quello dell'erba arsa. Non è l'azzurro del mare, né il verde di un passo alpino: questi sono i colori dei vacanzieri, o di altre stagioni, meteorologiche o della vita.  Il sole ha bruciato la collina e la terra si porta addosso un mantello di paglia. Il cane corre su e giù, ha ancora la forza della giovinezza e la voglia di scoprire se, sotto la coltre del prato secco, è rimasto qualche germoglio verde, intravisto a primavera e di cui forse conserva ancora un ricordo vivo. Non sa, il cane, che un germoglio, proprio perché è tale, non può essere oggi quel che era soltanto ieri, né che domani sarà altra cosa da ciò che è oggi.  Il cane vive in un eterno presente, nel quale ritrova, tutte assieme, le cose di ieri e quelle di domani. I suoi ricordi, così come le sue attese, sono senza tempo e indistinte dall'oggi. Non ha una cognizione del tempo che è passato, né di quello che deve ancora giungere. Ecco perché il nostro

Dove eravamo rimasti?

Le formiche formano due file parallele, lungo il tronco del salice vicino alla spiaggia. Quella di sinistra si dirige verso la chioma, l'altra verso la terra. Le osservo come potrebbe fare un bambino rapito da una cantilena, attratto dalla continuità ininterrotta dell'andirivieni: nel loro percorso formano un cerchio oblungo e stupidamente mi chiedo che senso abbia salire, per poi scendere e dopo ritornare, ancora una volta, su in cima.  Vanno e vengono, le formiche, senza di fatto spostarsi dal loro albero. Sempre lì stanno, anche se in movimento e pure se si adoperano e si affannano tutto il giorno. Lo sappiamo che questi insetti sono i campioni della fatica e della laboriosità. Siamo stati noi uomini a definirli così, cercando un modello di sacrificio a cui ispirarci, un esempio da ricordare, non se lo sono certo detti da sé che loro lavorano mentre le cicale cantano, tanto per autocelebrarsi e per mettere in cattiva luce un altro insetto che non ha mai fatto loro del

Fra terra e cielo

Hanno più di quattrocento anni questi amici che incontro ogni giorno. Dieci platani monumentali che, con i loro rami, in questa stagione ricoperti di foglie, dipingono il cielo di verde e, con la loro ombra, rendono la terra ancora più scura. Si stagliano verso il sole, come qualsiasi essere che abbia un minimo di aspirazioni, ma hanno anche i piedi ben piantati al suolo, proprio come quelle persone che, pur viaggiando con la fantasia, di ogni viaggio sanno riconoscere sia l'andata che il ritorno e magari sanno anche che i viaggi senza ritorno, come spesso li chiamiamo, non esistono, mentre invece è vero esattamente il contrario, ché soprattutto esistono viaggi senza andata, verso mete dove non sappiamo giungere.  Un viaggio, infatti, non è una rincorsa alle novità, ma un desiderio di conferme, che se arrivano siamo fortunati, ma che il più delle volte ci deludono. Un viaggio non è altro che la ricerca della nostra infanzia, il tentativo di trovare luoghi familiari in altri p

Coronavirus: tutela della salute o della bigenitorialità?

Riprendo integralmente un interessante articolo pubblicato da ISP Notizie, autorevole rivista dell'Istituto di Studi sulla Paternità, sul conflitto fra il diritto alla salute e la tutela della bigenitorialità durante il distanziamento imposto dal Governo per l'emergenza coronavirus. La pubblicazione, a firma dell'avv. Gianluca Aresta, cita molte volte l'intervista all'avv. Laganella  apparsa su questo blog qualche settimana fa. "La pandemia che tanto crudelmente e senza preavviso ha invaso il nostro Paese, paralizzato la nostra quotidianità, violentemente aggredito e intimamente cambiato (forse per sempre, forse “solo” per un prossimo lungo periodo) le nostre abitudini sociali e la nostra organizzazione di vita quotidiana, ha trascinato con sé una molteplicità di eterogenee problematiche che hanno impegnato i più attenti osservatori della realtà sociale e giuridica. Particolarmente interessante (e, per certi versi, preoccupante) l’apparente conflitto fra

Oltre la siepe

Ce ne vuole sempre una per iniziare qualsiasi cosa, anche un discorso, ma questa volta ne ho almeno tre di occasioni: L'infinito di Leopardi, citato da un'amica al parco, I Dieci Comandamenti,  raccontati da Benigni e che abbiamo visto alla tv l'altra sera, alcune raccomandazioni fatte lo stesso giorno ai miei figli. La siepe è quell'ostacolo che abbiamo tutti davanti agli occhi e che non ci permette di vedere, oltre di essa, il resto del mondo. Ma è anche uno stimolo per l'immaginazione, l'ipotesi per andare avanti, per varcare il confine fisico e il limite mentale. Un viaggio interiore, per Leopardi, ma anche la possibilità, per tutti noi, di espandere i nostri orizzonti, per metterci in comunicazione con qualcosa che non conosciamo, ma verso cui fin dalla preistoria dell'uomo ci spingiamo, oltre la nostra frontiera individuale. Qualcosa più grande di noi, l'ignoto o l'infinito, appunto. Ovvero, la divinità, che è presente, anche in senso laic

L'arte di essere evanescenti

Nascondersi di fronte al virus e innanzi agli altri, non farsi trovare, è una delle forme possibili del voler essere evanescenti. Anche se ho più di qualche dubbio in proposito, darò la colpa alla prima cosa che mi viene in mente: a suscitare questa strana idea dev'essere la mascherina, che ora indossiamo tutti e che tutti rende indistinguibili, perché ciascuno di noi la porta con la stessa intenzione, quella di proteggersi piuttosto che tutelare gli altri, alzi la mano chi afferma il contrario. E identica per tutti è anche la narrazione di questo accessorio, che invece al prossimo racconta: "Guarda come sono rispettoso, nota quanto sono ligio", mentre chi si avvicina ti riconosce quale suo simile, in questo, e ammicca e ti fa quasi un inchino. Ma rendersi invisibili è un'arte, una forma di comunicazione  visiva , starei per dire, se non suonasse contraddittorio, ma scopriremo fra poco che non lo è affatto, accostare questo aggettivo all'invisibilità. Meglio

Un'ora d'aria

Un'ora d'aria è la metafora perfetta.  Il fatto che la mia passeggiata sia coincisa con un giorno di inizio maggio, con metà della primavera alle spalle, là dove adesso guardano i miei occhi, e l'altra metà davanti a me, dove i miei occhi possono invece soltanto immaginare, ha dell'assurdo: ciò che vedo, infatti, non è il presente, né tantomeno il futuro, ma il passato. È un illuso chiunque pensi di cogliere l'attimo, la realtà nel momento stesso del suo divenire, perché tutto ciò che sappiamo è già avvenuto, fosse anche un secondo prima del nostro arrivo, mentre il presente è quel punto di passaggio fra il prima e il dopo e nessuno può fermarne l'istante nel quale esso ci si para davanti.  Ora, a dire il vero, mentre cammino, davanti agli occhi non ho uno, ma due passati: il primo è quello che mi si presenta allo sguardo, inedito, compiuto quando non c'ero, mentre ero rintanato in casa. Il secondo è quello che ho vissuto e che mi resta nella testa, il

La partita sul terrazzo

Il muretto sarà alto un metro e mezzo al massimo. È per questo che il pallone con cui giochiamo a calcio sul terrazzo è sgonfio. Perché non rimbalzi troppo, con il rischio che vada a finire di sotto e colpisca qualcuno di passaggio. È pur vero che di persone ne passano poche sotto casa in questi giorni e comunque è capitato, alcune volte, che la palla finisse in strada. È andata sempre bene, per fortuna. Il pallone che usiamo per giocare sul terrazzo non lo abbiamo sgonfiato apposta. È bucato. Lo aveva morso il nostro cane Spot a Villa Borghese, qualche tempo prima che ci chiudessero tutti in casa. Non so perché non lo avessimo buttato via subito, quel giorno. Adesso in ogni caso ci serve, per il motivo che ho detto.  Il terrazzo non lo abbiamo mai frequentato prima del coronavirus, i miei figli non c'erano mai stati. È uno di quei posti che appartengono a tutti i condòmini e che, proprio per questo motivo, non sono di nessuno, perché nessuno ha bisogno di andarci e tutti vog

La corona di spine di chi non è re di se stesso

Aveva sul capo una dolorosa corona di spine il Re dei Giudei, negli ultimi istanti della sua vita. Inequivocabile il messaggio di chi lo aveva incoronato in questo modo: "Sei un re, ma noi abbiamo il potere di farti morire. E dunque non sei affatto un sovrano, perché non comandi neanche il tuo, di destino. Non sei re proprio di nulla, neanche di te stesso e questa è la corona che fa per te: uno sberleffo, un oggetto di derisione e sofferenza terrena. Di certo, non un simbolo regale degno del discendente di Davide". Saramago dice che, anche se non sanguiniamo, siamo in molti a portare una corona di spine, a non essere padroni di noi stessi. Anzi, afferma che la portiamo perché "non abbiamo il permesso di essere re di noi stessi". Al di là del fatto che essere assoluti padroni di se stessi è un ideale utopistico, ed è incontestabile che nessuno possa per tante ragioni esserlo, in ultima analisi semplicemente perché siamo mortali, mi piace soffermarmi proprio su