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Visualizzazione dei post con l'etichetta Lettere a mio figlio

Non serve a niente parlare

Non serve raccontare ciò che è accaduto, non serve chiedere spiegazioni, non serve parlare e per dire cosa?   Non occorre spiegare. Non occorre domandare. Le parole dicono molto meno dei fatti. E le domande sono fatte di retorica in questi giorni, molto più che in quelli lontani. La retorica del presente è ancora più vivida di qualsiasi futile ritorno al passato. Voi mi guardate andare e tornare e adesso lo state perfino accettando. Non so con che spirito, con che stato d'animo: questo non ce lo diciamo ma posso immaginarlo. L'infelicità posso soltanto immaginarla dietro al far finta di niente, dietro a un sorriso di circostanza, dopo che ci siamo detti "arrivederci".  Posso intravedere l'infelicità dietro a quella porta chiusa, nel ritorno alle cose che vi aspettano e subito dopo, quando chiudete gli occhi, appena prima di prendere sonno.

Quindicesima lettera: sarete la cosa bella che siete adesso

Non succederà, non andrà così. Avrete ben presto altri punti di riferimento, altri modelli a cui vi appassionerete. Non prendete (per fortuna non lo farete!) noi genitori come gli unici esempi della vostra vita o rischiate di diventare degli idioti, nel senso stretto del termine, di chiudere la vostra esistenza in un cerchio troppo stretto, in uno spazio limitato.  Per crescere avete bisogno di conoscere il mondo, più di quanto lo abbia conosciuto io stesso. Per diventare grandi, non dovete mettere radici troppo presto, come ho fatto io, che, quando ero soltanto un ragazzo, mi sono trovato a essere una pianta nella tormenta e, ora che sono cresciuto,  nel posto in cui mi trovo, non posso far altro che resistere al vento e ai suoi capricci. Da parte vostra, se a volte non sarete felici, fate di voi stessi una vela e prendete il vento per andare dove vi spingono i vostri desideri e le vostre passioni. In questo momento, i miei sogni non sono più fatti di aria fresca, ma di terra scura e

Quattordicesima lettera: la libertà è un dovere

Sulla scia dei fatti di Parigi, questa lettera sulla libertà è la più difficile che vi scrivo.  E forse anche la più incomprensibile. Perché la libertà non è innata, come si potrebbe pensare, né tanto meno è un regalo, ma un dovere verso gli altri e verso noi stessi.  Verso gli altri, perché ne dobbiamo rispettare il pensiero, il credo, le scelte e le azioni.  Verso di noi, perché le stesse libertà, che dobbiamo riconoscere agli altri, dobbiamo vederle riconosciute a noi stessi.  Nessuno ha il diritto di schiacciare la libertà degli altri. Nessuno ha il diritto di reprimere la nostra libertà.  La libertà non è un dono prezioso, come si dice spesso a proposito della vita. Nessuno, infatti, ci ha mai regalato qualcosa di tanto grande. Fin dall'istante in cui veniamo al mondo non siamo liberi, ma dipendiamo dalle cure amorevoli dei nostri genitori. Fin dal primo giorno in cui vediamo la luce, lottiamo per una boccata di ossigeno. E quel po' di aria è una conquista vitale, faticos

Tredicesima lettera: il dolore

Qualcuno ha detto che, più che conoscere, noi esseri umani, siamo in grado di ri conoscere. L'uomo che stamattina ho visto attraversare la strada, mentre ero fermo al semaforo a guardarmi attorno, assomigliava a uno di quegli ebrei scampati da Auschwitz. Era, infatti, un cinquantenne tutto pelle e ossa, alto, di carnagione pallida, i capelli molto corti e rasati sulla nuca, la schiena ingobbita sotto il peso di due pesanti borsoni.  Di prima mattina, l'aria era abbastanza fresca, ma lui portava dei sandali senza le calze. Indossava pantaloni di velluto beige puliti e stirati e una camicia con le maniche corte. Osservandolo attentamente, ho pensato che potesse essere un senza-tetto dell'Europa dell'est, che magari stava andando a cercarsi un lavoro. Soprattutto, con l'immaginazione mi sono soffermato sulla fatica che poteva compiere, un uomo tanto esile, trasportando, apparentemente senza sforzo, il contenuto delle sue valige. Ho pensato anche al freddo che lo colpiv

Dodicesima lettera: teoria della torta ovvero come aggiungere valore

E' molto tempo che giro attorno all'argomento del valore  e oggi ne scrivo perché solo adesso sono riuscito a capire da cosa dipendesse il blocco che fino a ieri mi impediva di farlo. Sono una persona molto scettica, senza facili entusiasmi: un'infermiera, a cui l'altro giorno ho chiesto delucidazioni riguardo una terapia che devo seguire, mi ha detto senza mezzi termini che ho "una diffidenza assoluta" verso il protocollo. Questo, soltanto per aver fatto una domanda di troppo. Ci pensate: teoricamente una domanda è tale, ossia è il contrario di una risposta. Quelle che faccio io, poi, non sono mai retoriche, ma le più neutrali che posso, cioè vogliono lasciare aperta ogni possibilità di risposta, non ne contengono alcuna, già predeterminata, dentro di sé. E, invece, sono diffidente... Una persona scettica, invece sì e, in quanto tale e poco entusiasmabile, tendo a guardare il mondo nelle sue particelle elementari. E mi accordo che è soltanto grazie al modo di

Undicesima lettera: fratture

Ci ho messo circa trent'anni, il periodo di tempo intercorso dal giorno in cui a quindici anni mi ruppi il braccio a oggi, per capire che la parola 'frattura' non significa semplicemente 'rottura' ma soprattutto 'distanza'. Quando parliamo della frattura di un arto, infatti, pensiamo alla rottura di un osso, non all'allontanamento di una parte di esso dalla sua sede naturale o al suo distacco, che è invece ciò a cui fanno riferimento ai medici. Gli ortopedici che hanno curato il mio figlio piccolo, che si è spezzato l'omero due settimane fa, hanno tentato di "ridurre" la frattura - così si sono espressi - con un intervento chirurgico e l'ingessatura dell'arto. Nei sei giorni trascorsi in ospedale assieme al mio bambino, mi sono venuti in mente alcuni tipi di fratture, più o meno insanabili, ma a volte anche guaribili. "Papà, quanto dura la morte?", mi ha chiesto il figlio piccolo qualche giorno prima di farsi male. E io ho

Decima lettera: essere e apparire

I due modi di 'essere' spesso coincidono e sarebbe più giusto, e soprattutto più vero, dire "essere è apparire" anziché distinguerle, queste due possibilità di vivere. Alcune persone che conosco coltivano una propria immagine, la alimentano e hanno paura di apparire diversamente da come vogliono. Ci sono uomini che vestono i panni di personaggi più o meno reali, a volte immaginari e che corrispondono alle loro aspirazioni, a ciò che vorrebbero essere. Sono atteggiamenti, quelli che hanno, che si sono protratti oltre il periodo adolescenziale e che manterranno per tutta la durata della loro esistenza. Spesso, non solo si ispirano ad altri e aspirano a essere come loro, ma addirittura fanno finta di essere altri, finendo per crederci per primi: è qui, in questo fenomeno patologico, di scambio di posto fra l'apparenza e l'essere, dove la prima sostituisce il secondo, che quest'ultimo si perde.  Conosco un popolo di attori che recitano in film dove non esiste

Nona lettera: essere semplici è complicato

"Come stai?", ho chiesto spesso in giro. La domanda che facciamo tutti a tutti, con la stessa spensieratezza di quando diciamo "ciao", tanto per salutarsi mentre ci si incrocia, un attimo prima che uno vada di qua e l'altro di là, chi si è visto si è visto, ciascuno per la propria strada. Uno mi ha detto "bene, grazie", un altro "non c'è male", un altro ancora mi ha parlato del tempo, uno non ha neanche risposto, forse non mi ha sentito o ha preferito inseguire i propri pensieri fino a casa, una donna ha farfugliato qualcosa di incomprensibile, un bambino mi ha chiesto un gelato, un uomo ha accennato a certi suoi problemi senza tuttavia dirne uno, avrebbe voluto raccontare qualcosa ma la paura d'essere scoperto lo ha vinto sul più bello, un altro mi ha parlato di un fatto di cui mi avrebbe detto comunque, a qualsiasi altra, minima occasione, in risposta a qualunque altra domanda, un gatto ha miagolato e subito dopo ha sbadigliato, un

Ottava lettera: scegliere

Sono cose che ogni tanto vengono in mente, specialmente in un momento di fantasia stravagante, ma che poi se ne vanno, lasciando il posto a un modo di ragionare normale e conformista. E alla voglia di attribuire responsabilità o colpe, più raramente meriti. Pensieri al di fuori da ogni logica, per i quali non vale la pena di perder tempo a dargli retta, figuriamoci se abbiamo la minima intenzione di approfondirli. Per fortuna, invece, qualche volta c'è chi decide di seguire la scia di certe illuminazioni e, stravolgendo le regole, ti fa guardare il mondo da una prospettiva diversa, spesso diametralmente opposta a quella ortodossa.  Questa persona si chiama José Saramago. E' lui che ha detto, rovesciando completamente il modo comune di pensare, che le decisioni prendono l'uomo e non il contrario, come solitamente si pensa.  “La decisione del Signor Josè apparve due giorni dopo - scrive il Nobel portoghese in Tutti i nomi - . Generalmente non si dice che una decisione ci appa

Settima lettera: saper ascoltare

Ai tempi dell'università, durante una lezione di Filosofia del linguaggio, il titolare della cattedra, che alcuni studenti chiamavano Dumbo per via delle orecchie a sventola, un giorno parlò dell'importanza di ascoltare: citando Zenone di Cizio, disse che siamo dotati di due orecchie e di una sola bocca perché ascoltare ha un valore doppio rispetto al parlare.  Incontrai per la prima volta questo professore non all'università, ma quando avevo dieci anni, il giorno che venne nella mia scuola elementare a tenere una lezione sulle origini della lingua italiana. Era il 1980 e Tullio De Mauro era già il linguista affermato che più di 10 anni prima aveva tradotto il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure. Era inoltre l'uomo a cui, nel 1970, la mafia aveva ucciso il fratello Mauro perché, secondo la Corte d'Assise di Palermo, il giornalista "si era spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico Mattei". Insomma, stor

Sesta lettera: chi sono io per giudicare?

Ogni nostra espressione, qualsiasi pensiero ci salti per la testa, qualsivoglia scelta possiamo compiere contiene un giudizio, una valutazione, una nostra considerazione riguardo qualcosa che è altro da noi. Perfino una semplice asserzione, pensata o detta, è un giudizio, dal momento che contiene un soggetto e un predicato: è un discorso logico, ma anche molto concreto. Non possiamo proprio esimerci dal giudicare e, insieme, dall'affermare e dal negare contemporaneamente. In termini molto semplici, se dico che una cosa è bella, sostengo allo stesso tempo che essa non è brutta: sono i limiti del giudizio, più che evidenti nella parzialità logica nella quale agiscono. Affermo, giudico e, nel farlo, nego una varietà consistente di implicazioni. Il giudizio non è mai imparziale, perché chi lo emana non è onnisciente e perché non può che rivolgersi soltanto a una fetta di mondo. Ed è relativo, perché si basa solamente su ciò che si prende in considerazione, tralasciando una serie infini

Quinta lettera: ricevere (in prestito) e restituire

Tanto tempo fa sentii questa frase che mi colpì molto e che suona più o meno così: "Tutto ciò che possediamo lo abbiamo ricevuto in prestito". Ancora oggi non mi sono fatto un'opinione netta riguardo questa affermazione. Non so decidere, infatti, se essere d'accordo oppure in contrasto, in particolare con le implicazioni che derivano da una simile posizione. Soprattutto alla luce di una cosa di cui, al contrario, sono assolutamente convinto, e cioè che tutto quel che abbiamo, preso in prestito o non, un giorno dovremo comunque restituirlo o, per lo meno, consegnarlo ad altri. Non credo che tutto, ma proprio tutto, ci venga dato o che lo riceviamo grazie al contributo di altre persone. Alcune cose, infatti, riusciamo a conquistarle soltanto per la nostra determinazione e con le nostre forze e capacità, spesso soltanto dopo essere riusciti ad avere la meglio su chi queste stesse cose non voleva cederle. In prestito o meno, domani daremo ad altri quel che abbiamo avuto i

Quarta lettera: la paura di perdere qualcuno

È qualche giorno che mi abbracci più del solito e che ogni tanto mi dai un bacio, spontaneamente, senza alcun motivo particolare, addirittura senza che io stesso te lo chieda. L'ho notato e ti ho domandato, scherzando, "come mai ultimamente mi vuoi così bene?". Non mi hai risposto.  Poi, l'altra sera ti sei messo a piangere: volevi che dormissi con te. Ti ho chiesto cosa ti preoccupasse e tu, all'inizio, non volevi parlarmene. Poi, però, mi hai raccontato del brutto sogno che avevi fatto e del mostro che voleva catturarmi.  "Ma ci riusciva?", ti ho domandato. "No - mi hai detto - però il sogno non è finito e ho paura che continui stanotte". "Ma il mostro non riuscirà a prendermi, io sono fortissimo, più di Spiderman e di Superman messi insieme", ti ho assicurato. Mi hai guardato un po' scettico, ma non hai voluto contraddirmi. Mi sono sdraiato affianco a te fin quando ti sei addormentato, poi sono andato nel mio letto. La mattina

Terza lettera: l'uguaglianza

Avete sette e quattro anni e da un po' di tempo bisticciate spesso su ciò che è dell'uno e quel che appartiene all'altro. Non riuscite quasi mai a mettervi d'accordo, perché pensate che le cose scelte dall'altro abbiano un valore maggiore delle proprie. Continuate a litigare e allora decido io per voi: "Non ci sono cose tue e cose tue - vi dico -, tutto è di entrambi". E questa mia conclusione è chiaro che non vi soddisfi - desiderare la proprietà esclusiva delle cose fa parte della natura dell'uomo e forse, più dell'oggetto in sé, a interessarci davvero è il controllo che attraverso la proprietà possiamo avere su chi la stessa proprietà non ce l'ha e la desidera. Questa conclusione non fa parte soltanto del mondo degli adulti, ma riguarda anche i bambini, i quali, forse anche per questo motivo, quasi mai disdegnano il fatto di mettere in mostra ciò che possiedono di fronte ai compagni. E' per tale ragione che, qualche giorno fa, ho deciso

Seconda lettera: l'amore

Eri ancora piccolo, avrai avuto quattro anni, e un giorno ti arrabbiasti per un motivo che ora non ricordo e mi dicesti, perentorio: "Non ti voglio più bene". Pronunciasti la tua frase in un momento di rabbia e per un motivo probabilmente futile, ma che allora doveva apparirti come la ragione più importante del mondo, e sono sicuro che lo fosse, dato che le ragioni ci appartengono e possono essere grandi o piccole, come e quanto lo decidiamo noi. Ma lì per lì sorrisi e sdrammatizzai abbracciandoti e ingaggiando con te una finta lotta, dalla quale saresti uscito vincitore, come sempre. Cinque minuti dopo, infatti, eri di nuovo felice. E forse avevi già dimenticato il nostro litigio e la tua decisione di non amarmi più. Ma tu sapevi davvero cosa mi avevi appena detto? Ovviamente no, a quell'età non potevi. Probabilmente nemmeno oggi sai cosa sia il bene e anch'io, a dire il vero, non so molto dell'amore. L'amore, infatti, non è una cosa da sapere, ma un sentimen

Prima lettera: la memoria

Stamattina sono andato a nuotare e, come sai, quando sono da solo, i pensieri solitamente confusi nella testa riescono a prendere una direzione a volte addirittura inedita. Non credo ciò dipenda soltanto dal fatto di spostarmi in un fluido, nello scorrere a mia volta in un ambiente instabile. Mi è sempre successo, infatti, che l'immaginazione prenda forma mentre sono intento a muovermi. Mi accadeva molto spesso quando ero più giovane, durante le mie passeggiate quotidiane pomeridiane. Per quanto mi riguarda, spostare il corpo, portarlo da un posto a un altro o, molto più abitudinariamente, muoverlo facendogli disegnare un cerchio e compiere un percorso, coincide con il portare avanti un ragionamento, dandogli un senso compiuto. Nuotare o camminare, sù e giù lungo un itinerario, nel mio caso non vuol dire altro che tracciare dei circoli sempre più concentrici che mi portano a sciogliere una matassa. Nuotavo, ti dicevo, avanti e indietro per i venticinque metri della piscina e, a un