Passa ai contenuti principali

Post

Visualizzazione dei post con l'etichetta pensieri

Il mio orologio

Ho comprato l'orologio che porto al polso un anno fa, in concomitanza con alcuni eventi che hanno stravolto, se così si può dire, l'andamento regolare della mia storia personale.  Il mio orologio non mi serve per sapere che ora è e nemmeno per misurare il tempo. Ha la carica manuale, l'ho scelto proprio così, non l'ho voluto con il movimento automatico. Avevo deciso che lo avrei ricaricato tutte le mattine, che ne avrei girato la corona per farlo funzionare e per ricordare ogni giorno, facendo questo gesto, che non dovrò più perdere tempo e che me ne starò il più lontano possibile da scelte inutili o spiacevoli.  Ogni volta che lo guardo, il mio orologio mi ricorda di rimanere alla larga da qualsiasi automatismo, mi chiede di mettere in discussione molte cose, prima di tutte me stesso. Giorno dopo giorno, l'orologio mi serve a mantenere questo mio impegno e a ricordare, a tenere viva la memoria. Lo osservo: i giri che impongo alla corona danno alle lancette l'im

Un bacio sulle tue debolezze

Prima di chiudere definitivamente l'argomento che riguarda l' idea sbagliata dell'acqua , mi voglio occupare per l'ultima volta di un commento che ho ricevuto per questo post. Il lettore che me lo ha mandato sostiene, in sintesi, che, quando interviene, il sentimento degenera la bellezza del momento. Mi sono sentito colpito e ferito da tale tipo di concezione, che nell'amore intravede un intruso pronto a guastare la festa. E, in maniera inusuale, mi sono dilungato nella riposta che segue quel suo intervento.  Vorrei adesso che leggesse, se non lo ha mai fatto, una poesia di Alda Merini, che parla di sensualità e di corpi, ma nella quale prevale un sentimento talmente potente da esaltare al massimo, altro che degenerarlo, il momento del fare l'amore.  E poi fate l’amore.  Niente sesso, solo amore.  E  con questo intendo  i baci lenti sulla bocca,  sul collo,  sulla pancia,  sulla schiena,  i morsi sulle labbra,  le mani intrecciate,  e occhi dentro occhi.  Intend

L'idea sbagliata dell'acqua

L’idea dell’acqua è sempre sbagliata: non c’è modo di parlarne senza incappare in qualche errore. Il fatto è che si tratta di un fluido, dunque di qualcosa che non può restare fermo, neanche per un attimo, nemmeno per il tempo di definirla. Perfino uno stagno non è statico, sia perché la pioggia lo alimenta e sia perché il sole lo fa evaporare. Ricordo quando, tempo fa, vidi l’Arno: era un fiume senza direzione talmente pareva immobile, mentre, senza accorgermene, la corrente lo traportava verso il mare. Ero io a essere rapito dall’istante, a non badare al corso dell’acqua, al suo istinto innato di sfociare altrove, lontano da me.  A proposito di un’altra occasione e di un altro fiume, il Tevere, quella volta più gonfio del solito a causa della pioggia dei giorni precedenti, dicevo altrove che “non c’è differenza di acqua tra un fiume e un oceano, perché il primo è il preludio del secondo, e senza l’uno non potrebbe esistere l’altro... Non capire che il fiume è la stessa cosa del mare

Campane di vetro

Mi passano per la testa tante cose in questi giorni che precedono il secondo lockdown nel quale fra poche settimane saremo costretti a vivere. Lo dico senza paura, e anzi con il desiderio di essere smentito dai fatti, ma è la soluzione della chiusura generalizzata quella a cui stiamo per giungere, purtroppo non vedo alternative percorribili al momento. Forse non si utilizzerà più questo termine anglosassone divenuto ormai un tabù e se ne adopereranno altri più o meno edulcorati per parlarne. Fatto sta che per salvare la vita si dovrà sacrificare l'economia e la socialità, poiché senza la prima non esistono nemmeno le altre due. Però, mi domando, che vita è quella di chi è isolato ? Che esistenza conduce colui che è allontanato dalle proprie relazioni ed affetti? Persiste un possibile collegamento fra la persona e il mondo esterno che vada oltre la costrizione fisica alla lontananza?  Mi sono chiesto: è davvero confinato chi vive in una bolla? Non lo credo affatto e penso anzi che è

Fra terra e cielo

Hanno più di quattrocento anni questi amici che incontro ogni giorno. Dieci platani monumentali che, con i loro rami, in questa stagione ricoperti di foglie, dipingono il cielo di verde e, con la loro ombra, rendono la terra ancora più scura. Si stagliano verso il sole, come qualsiasi essere che abbia un minimo di aspirazioni, ma hanno anche i piedi ben piantati al suolo, proprio come quelle persone che, pur viaggiando con la fantasia, di ogni viaggio sanno riconoscere sia l'andata che il ritorno e magari sanno anche che i viaggi senza ritorno, come spesso li chiamiamo, non esistono, mentre invece è vero esattamente il contrario, ché soprattutto esistono viaggi senza andata, verso mete dove non sappiamo giungere.  Un viaggio, infatti, non è una rincorsa alle novità, ma un desiderio di conferme, che se arrivano siamo fortunati, ma che il più delle volte ci deludono. Un viaggio non è altro che la ricerca della nostra infanzia, il tentativo di trovare luoghi familiari in altri p

L'arte di essere evanescenti

Nascondersi di fronte al virus e innanzi agli altri, non farsi trovare, è una delle forme possibili del voler essere evanescenti. Anche se ho più di qualche dubbio in proposito, darò la colpa alla prima cosa che mi viene in mente: a suscitare questa strana idea dev'essere la mascherina, che ora indossiamo tutti e che tutti rende indistinguibili, perché ciascuno di noi la porta con la stessa intenzione, quella di proteggersi piuttosto che tutelare gli altri, alzi la mano chi afferma il contrario. E identica per tutti è anche la narrazione di questo accessorio, che invece al prossimo racconta: "Guarda come sono rispettoso, nota quanto sono ligio", mentre chi si avvicina ti riconosce quale suo simile, in questo, e ammicca e ti fa quasi un inchino. Ma rendersi invisibili è un'arte, una forma di comunicazione  visiva , starei per dire, se non suonasse contraddittorio, ma scopriremo fra poco che non lo è affatto, accostare questo aggettivo all'invisibilità. Meglio

La corona di spine di chi non è re di se stesso

Aveva sul capo una dolorosa corona di spine il Re dei Giudei, negli ultimi istanti della sua vita. Inequivocabile il messaggio di chi lo aveva incoronato in questo modo: "Sei un re, ma noi abbiamo il potere di farti morire. E dunque non sei affatto un sovrano, perché non comandi neanche il tuo, di destino. Non sei re proprio di nulla, neanche di te stesso e questa è la corona che fa per te: uno sberleffo, un oggetto di derisione e sofferenza terrena. Di certo, non un simbolo regale degno del discendente di Davide". Saramago dice che, anche se non sanguiniamo, siamo in molti a portare una corona di spine, a non essere padroni di noi stessi. Anzi, afferma che la portiamo perché "non abbiamo il permesso di essere re di noi stessi". Al di là del fatto che essere assoluti padroni di se stessi è un ideale utopistico, ed è incontestabile che nessuno possa per tante ragioni esserlo, in ultima analisi semplicemente perché siamo mortali, mi piace soffermarmi proprio su

Il coronavirus non è un'occasione per l'umanità

A proposito delle tante cose che girano nelle chat circa il lato positivo ed edificante e migliorativo per l'uomo e per l'ambiente di tragedie come l'epidemia che stiamo affrontando, viste come occasione per ripensare la nostra vita, se non addirittura di redenzione o di punizione per i nostri peccati, insomma come cosa "buona e giusta", ebbene, anche se alla fine dovesse esser questo ovvero una nuova possibilità per il genere umano, io non ho nessuna voglia di ripensare il mondo, la società, l'economia, i rapporti umani e i sentimenti, grazie a ciò che sta accadendo, quasi che il virus, benedetto, mi stia facendo un favore. Io non ho bisogno di una spinta tanto forte, di un flagello che arriva dal cielo, non voglio intravedere il baratro per pensare alla morte, né l'abisso per capirne le conseguenze. Io vorrei che ci rendessimo tutti conto di dove siamo arrivati, di dove sia giunta l'umanità, senza dover raggiungere necessariamente un punto di non

La banalità della memoria fine a se stessa

La settimana scorsa ho partecipato, per motivi di lavoro, a due eventi per il Giorno della Memoria: il primo al Quirinale, alla presenza del presidente della Repubblica, il secondo in una scuola elementare del centro, sulle cui scalinate d'ingresso sono state poste delle pietre d'inciampo , delle targhe “per non dimenticare”. Parterre di personalità istituzionali e delle comunità ebraiche, nella casa del capo dello Stato. Proiettati a ripetizione, su un pannello posto di fronte agli ospiti, filmati e fotografie in bianco e nero: volti senza più volto e corpi senza più corpo. Aggiungere (o sottrarre) altri aggettivi è retorica. Il primo scopo del lager, infatti, era quello di cancellare la personalità dei prigionieri fino renderli deumanizzati , senza espressione e senza anima, dunque distanti  dagli ariani, sia fisicamente che emotivamente. Delle cose, ormai rotte e inutilizzabili e, in quanto tali, da gettare via come la spazzatura nel cassonetto. Senza pietà, ovviamente

Due mani di carta

Attraverso il ponte tutte le mattine, ma guardo sempre davanti a me, raramente di fianco. Il fiume scorre ai lati dei miei occhi, è uno specchio bruno su cui non mi soffermo mai.  Stamattina, invece, l'increspatura dell'acqua mi attirava, perché era simile a quella che ha il mare quando soffia la tramontana.  "Non c'è differenza di acqua - ho pensato - tra un fiume e un oceano, perché il primo è il preludio del secondo, e senza l'uno non potrebbe esistere l'altro. Ma noi guardiamo l'uno e l'altro - mi sono detto - dando a ciascuno un nome diverso, facendo delle distinzioni. E più ci addentriamo nei particolari, più ci allontaniamo dalla verità generale e più commettiamo errori: più siamo precisi e più sbagliamo ed è inevitabile che sia così, agli uomini non è dato di vivere l'essenza delle cose e di avere una visione globale della realtà, anche perché, se ciò accadesse, verrebbe meno tanto il panorama quanto l'osservatore, l'oggetto assieme

La matematica, i giudizi, infine il cane

Osserva il mondo che hai attorno – dice il matematico – e trai le tue conclusioni: la realtà non è che il risultato della combinazione di più fattori, ai quali è possibile risalire attraverso un viaggio, spesso breve, a ritroso nel tempo. Trova – l'uomo reale, quello fatto di carne, ossa e sangue – corretta questa affermazione del matematico? Pensa egli che la propria vita, e quella degli altri, sia riconducibile a un'equazione? Veramente, nella realtà, un risultato, un numero a caso, poniamo il 3, è dato da 1+2 o da 4-1 o da 1x3 o da 9:3 o da tante altre operazioni (quante sono i numeri e le loro possibili combinazioni)? I numeri sono infiniti, e finiti fin tanto che siamo capaci di contarli, e questi ultimi definiti, e gli altri, quelli che mancano all'appello, al massimo definibili. Ma un uomo non è il risultato di un'operazione matematica, né la sua vita è il prodotto della combinazione di fattori definiti o definibili. Molte ragioni sono infatti indefinibili o non

Fratture, giudizi, autoaffermazione...e Socrate

Quello di come mi sono rotto il braccio per la seconda volta, a sedici anni, è un racconto ricorrente. Mi capita di parlarne quando c'è la neve o se incontro una persona che porta il gesso e desidera avere uno scambio di esperienze sull'argomento 'fratture', come mi è successo qualche giorno fa. Lo racconto anche qui, perché è curiosa non tanto la dinamica del mio incidente, ma piuttosto l'opinione e il commento, spesso unanimi, che la mia esperienza suscita. Ebbene, dopo la mia prima frattura all'avambraccio destro, dovuta a una caduta per essere inciampato su una radice mentre giocavo a pallone su un prato, dopo due mesi e mezzo di ingessatura, dopo aver tolto il gesso un sabato di un dicembre che aveva riempito Roma di neve, domenica mattina decido di fare irrobustire il mio arto indebolito andando a sciare nel parco vicino casa mia. Scio per tutta la mattinata, su e giù per le valli innevate, e alla fine della giornata sgancio gli sci, mi tolgo gli scarponi

Il bambino e il cane

Chi ha detto che gli occhi servono soltanto per vedere o per guardare, per accorgersi di chi ci sta di fronte o per immaginare o sognare (a occhi chiusi, ma anche a occhi aperti - come diciamo spesso - e comunque sempre qualcosa di già visto o che, al massimo, desideriamo vedere)? A volte gli occhi servono a prendere in braccio altri occhi. Per incontrarsi, per capirsi, per dirsi di sì. Per questo, può bastare uno sguardo o sono necessari momenti appena più lunghi. Ma sempre di istanti parliamo quando a parlarsi sono gli occhi. Gli occhi non conoscono né tempi troppi lunghi, né morti. Gli occhi del bambino hanno incontrato quelli del cane. Gli occhi del cane hanno incontrato quelli del bambino. Anche se l'umano guarda il mondo a colori e l'animale in bianco e nero, e un po' sfocato per giunta, credo che nasca così quello che chiamiamo, retoricamente, quando parliamo di innamoramento o soltanto di qualcosa che crediamo tale, "amore a prima vista". Ma quello fra bam

La luce di Lisbona

Sono tornato da Lisbona da pochi giorni e non parlerò, adesso, della città lusitana, delle sue piazze e delle vie che evocano la libertà conquistata, né del tram 28 o del castello o di Belem. Queste cose, infatti, sono descritte in tutte le guide turistiche. Racconterò soltanto che è la seconda volta che vado in questo posto che amo con tutto il cuore, forse più d'ogni altro, dove c'è un fiume che sembra il mare: la città e l'acqua sono i luoghi nei quali è più facile perdersi ed eventualmente, se davvero lo si desidera, ritrovarsi.  A distanza di dieci anni dalla prima volta, sono stato a Lisbona soltanto con i miei figli, con i quali ho fatto l'esperienza di un viaggio intimo meraviglioso. Due compagni infaticabili, due bambini per molti versi già uomini e certamente viaggiatori meno noiosi di tanti adulti che conosco. Curiosi e interessati a tutto, non hanno mai perso l'attenzione verso ogni piccolo particolare e novità che abbiamo incontrato.  Riuscireste a imma

Il distacco e l'idea della morte

L'altro giorno ascoltavo in televisione uno psicologo che parlava di bambini piccoli, penso si riferisse a quelli fino a 4 anni. Pur non avendo ancora alcuna idea strutturata della morte, diceva, la loro paura maggiore è quella del distacco dai genitori. Ne usciva un quadro legittimamente egoistico dell'infanzia, e vorrei vedere: se improvvisamente non c'è più chi fino a oggi si è preso cura di noi, ci dice l'istinto, come potremmo sopravvivere domani.  Non sappiamo ancora cos'è la morte, ma se chi ci ama se n'è andato, il futuro più imminente è il salto nel buio che ci spaventa maggiormente. Sono fuori Roma per lavoro, al confine con la Francia, a otto ore di treno da casa. Un viaggio annunciato ai bambini già da qualche settimana e ben accettato da loro. Due giorni fa però, prima di andare a dormire, il figlio grande mi ha detto che non voleva che partissi. Lo ha fatto senza piangere, ma con la voce appena strozzata: riusciva a trattenere l'emozione, ha l&

Quattordicesima lettera: la libertà è un dovere

Sulla scia dei fatti di Parigi, questa lettera sulla libertà è la più difficile che vi scrivo.  E forse anche la più incomprensibile. Perché la libertà non è innata, come si potrebbe pensare, né tanto meno è un regalo, ma un dovere verso gli altri e verso noi stessi.  Verso gli altri, perché ne dobbiamo rispettare il pensiero, il credo, le scelte e le azioni.  Verso di noi, perché le stesse libertà, che dobbiamo riconoscere agli altri, dobbiamo vederle riconosciute a noi stessi.  Nessuno ha il diritto di schiacciare la libertà degli altri. Nessuno ha il diritto di reprimere la nostra libertà.  La libertà non è un dono prezioso, come si dice spesso a proposito della vita. Nessuno, infatti, ci ha mai regalato qualcosa di tanto grande. Fin dall'istante in cui veniamo al mondo non siamo liberi, ma dipendiamo dalle cure amorevoli dei nostri genitori. Fin dal primo giorno in cui vediamo la luce, lottiamo per una boccata di ossigeno. E quel po' di aria è una conquista vitale, faticos

Antonello

Tutto sarà durato meno di un minuto. Escluso il tempo che ci ha messo per scendere e bussare alla porta e quello che ho impiegato io per vestirmi e salire al piano di sopra.  La signora si scusa in anticipo per il disordine in casa. Il figlio cinquantenne è per terra, accanto a un divano, nella stanza a destra, appena dopo l'ingresso. E' caduto dal letto, nella camera in fondo al corridoio, e la madre - me lo racconta lei stessa - lo ha trascinato per i piedi fino al solottino. E' troppo pesante, il figlio, perché lei riesca a sollevarlo da sola e a farlo sdraiare sul divano. E anche insieme ce la facciamo a stento. Io lo prendo dalle braccia, lei dalle gambe e, quando è ancora soltanto appoggiato all'inizio della seduta, ancora in bilico, lei lo incita, ripetendoglielo tre, quattro volte di seguito,  a "spostare il culo verso lo schienale". Nel frattempo lui mi osserva, come si guarderebbe un estraneo (questo in realtà sono) che comparisse di punto in bianco

Il re della fattoria

E' un po' di tempo che lo osservo, questo bambino di quasi cinque anni, al quale il mondo appare alla rovescia. Dice che il latte è freddo quando invece è caldo, fa finta di nulla quando si fa male, non piange e nasconde la ferita, definisce volentieri se stesso brutto o cattivo, a seconda dell'occasione, quando è vero esattamente il contrario.  E' un dislessico non nella parola, ma nel modo di pensare. Oppure è un tipo semplicemente originale, non ancora normalizzato, che afferma di saper contare soltanto fino a otto, mentre io l'ho sentito molte volte arrivare senza intoppi almeno fino a venti. Dice spesso: "quando eravamo morti..." e "il giorno che saremo piccoli", senza sapere nulla di teorie che parlano di reincarnazione o di vite precedenti. E io non lo contraddico, perché ne so meno di lui di queste cose e l'unica certezza che possiedo è che, soltanto ad accennare di questi argomenti, si sbaglia come niente. Mi piace così com'è, il

Vento

Stasera ho ascoltato Angelo Panebianco dire che il proprio percorso formativo è stato piuttosto lineare, che non vi sono stati stravolgimenti particolari nel passaggio dagli studi al lavoro. "L'unica vera rivoluzione nella mia vita - ha detto - c'è stata con la nascita dei miei figli, nel momento in cui ho capito che qualcun altro dipendeva totalmente da me". Ho sentito dire molte volte che la nascita di un bambino porta a un cambiamento radicale nella vita delle persone, nel momento che queste divengono genitrici. Non posso non condividere questa affermazione: essere genitori significa troncare con un passato privo di responsabilità mai tanto dirette.  Eppure, nel momento stesso nel quale assume questo ruolo, il neo genitore non cessa di essere figlio, anzi: il suo essere padre o madre lo rimanda costantemente al periodo nel quale erano i propri genitori a prendersi cura di lui, agli anni in cui egli stesso era figlio. Ai ricordi di un tempo, all'esperienza, agli

Lo scivolo

Occasionalmente mi capita di parlare con questa persona, con la quale i discorsi finiscono sempre per prendere una piega estrema. L'altro giorno l'argomento era il pilota della Germanwings che si è schiantato con il carico di passeggeri che trasportava. La domanda, a proposito del gesto folle dell'uomo, è stata la più ovvia: "Perché Andreas Lubitz non si è suicidato da solo, senza sacrificare le altre 149 persone a bordo dell'aereo?".  Non altrettanto scontata è stata la risposta che ha dato: "Non lo so, forse era depresso e quando sei depresso non sei in grado di capire bene quello che succede. Quando lo sono stata io, per la morte di mio figlio, ho provato a soffocarmi con un sacchetto di plastica. Ma sai, non è per niente facile suicidarsi, perché alla fine prevale quasi sempre l'istinto di sopravvivenza. Siamo degli animali, infondo, e siamo dotati di un forte spirito di adattamento, anche di fronte al peggiore dei mali". E' la seconda vo